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Archive for the ‘Africa’ Category

Cvd, come volevasi dimostrare. Le rivoluzioni hanno sermpre uno strascico di terrore. In l’Egitto, la caduta di Mubarak ha lasciato al potere un establishment che, pur decotto e sostanzialmente inviso all’opinione pubblica, si è autoproclamato autorità provvisoria fino alle elezioni di settembre. Nel frattempo, il problema sicurezza nelle città non è stato risolto. Questo sta facendo gioco alle realtà estremiste che erano già presenti nel Paese ben prima delle rivolte. Per quanto nessno se ne fosse mai occupato.
Ormai è salito a undici il numero delle vittime dei violenti scontri fra salafiti e copti di questa notte nel quartiere Embaba del Cairo. La polizia spiega che otto sono musulmani e tre copti. Oltre a 150 i feriti, dei quali sei gravi. Con l’attenzione della comunità internazionale rivolta altrove, in Egitto si sta consumando lentamente un conflitto confessionale. La minoranza copta è vittima oggi della mancanza di un potere al Cairo che non è in grado di contenere fenomeni di jihadismo che gravano sul Paese comunque da anni.

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di Marco Lombardi

La questione Nord Africana ingarbuglia sempre di più la faccenda degli immigrati verso l’Italia. Una faccenda che dobbiamo assolutamente controllare ma… la molteplicità di aspetti che la contraddistinguono rende difficile una risposta adeguata se non la si spoglia delle sue “attitudini” politiche” per riposizionarla nelle necessità di governo:
Immigrati clandestini o rifugiati: non è il punto di partenza dell’imbarco che ci permette di deciderlo (come sembra dalle dichiarazioni di questa sera, domenica 27/3) ma sempre più è necessaria l’identificazione delle persone per potere discernere;
La Francia respinge gli immigrati: senza una concentrazione europea la questione non può essere affrontata in modo efficace. Su questa emergenza misuriamo l’Europa. Se essa manca, oggi, è del tutto inutile che poi pretenda di esserci, dopo,…con qualche multa sull’ambiente!
L’identificazione di chi sbarca è fondamentale: conosciamo quali sono i percorsi di immigrazione clandestina e, di massima, le caratteristiche del “serbatoio” libico fino a poco tempo fa controllato da Gheddafi. Identificare chi arriva in Italia ci permette di fare delle ipotesi sui percorsi e, pertanto, di avanzare ipotesi di intervento “delocalizzato”;
Pro-azione: tra poco non sarà sufficiente gestire l’impatto nelle isole italiane, dovremo trovare il modo di anticiparlo o attraverso nuovi accordi con i governi emergenti nella Nuova Africa del Nord o attraverso interventi diretti sul posto;
Sicurezza: nessun migrante è interessato a restare dove viene portato…i tentativi di fuga saranno costanti e continui. La questione sicurezza non è dunque immediatamente centrale là dove sono dislocati – dopo le isole – gli immigrati ma emergerà 1) come risposta al controllo per non lasciarli scappare 2) se si costituiranno serbatoi di disperati là dove verranno fermati su rispolverati confini nazionali;
Soldi e rimpatrio: nel passato è sempre stato il meccanismo di re-fuelling dell’immigrazione clandestina, troppo rischioso e poco efficace.

Pubblicato su www.itstime.it

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L’obiettivo del misterioso raid aereo avvenuto due giorni fa a Port Sudan, in cui due persone sono rimaste uccise, sarebbe stato Abdel Latif Ashkar, un responsabile militare di Hamas. Lo scrive il quotidiano israeliano Maariv. Ashkar è il successore di Mahmud al-Mabhouh, il responsabile militare di Hamas ucciso un anno fa a Dubai da un commando di non precisata origine. È morto anche Ashkar? Chi può dirlo?
Ieri il governo di Khartoum ha accusato Israele della responsabilità del raid. Israele, a sua volta, ha replicato dicendo che «non ha nulla da dichiarare». Originario del campo profughi di Jabalya (Gaza), Ashkar è da anni membro di Hamas. È stato costretto ad abbandonare la Striscia perché braccato dalle forze dell’Anp. L’anno scorso Ashkar è stato incaricato da Hamas di organizzare il contrabbando di armi e munizioni verso Gaza. Stesso incarico che aveva al-Mabhouh.

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         di Ilaria Pedrali

Ormai sembra che Laurent Gbagbo si stia arrendendo e negozi la sua resa, a patto che venga garantita l’incolumità ai sui seguaci e alla sua famiglia. In Costa d’Avorio ormai la crisi post elettorale si sta trasformando ogni giorno di più in un’altra guerra civile. Una guerra civile che il mondo fatica a capire.

Tutto è da far risalire alle elezioni del 31 ottobre 2010, rese possibili grazie al sostegno economico del Giappone che, forse interessato a una testa di ponte in Africa, si prese carico delle spese per la logistica elettorale: urne, schede e cabine comprese. Erano poco più di un paio di anni che il Paese stava cercando di risollevarsi dalla precedente guerra civile, risoltasi con la firma degli accordi di pace in Burkina Faso nel 2007. A novembre, dopo il ballottaggio, lo sconfitto Gbagbo rifiuta l’esito elettorale che invece è favorevole a Alassane Ouattara, repubblicano, già in corsa per la tornata elettorale del 2000 ma escluso perché non ivoriano al 100% (suo padre è del Burkina Faso). La comunità internazionale riconosce la vittoria a Ouattara e lo considera il vero Presidente. Inizia una fese di stallo politico-istituzionale che scoppia in violenza. La cronaca dei fatti degli ultimi giorni, un po’ offuscata dalla vicende libiche, è stata un’escalation di soprusi, assalti ai palazzi del potere, massacri, scontri a fuoco, coprifuoco notturno, posti di blocco presidiati da civili. Gbagbo, nel’arrogante tentativo di restare attaccato al potere, ha sequestrato la Banca Centrale. Di qui la chiusura delle principali banche del Paese e la crisi di liquidità che fa presagire, nel breve periodo, una conseguente difficoltà a reperire carta moneta.

Le violenze che si sono scatenate sono degenerate in una emergenza umanitaria, Save the Children stima siano un milione i bambini colpiti, molti dei quali sono stati costretti a fuggire in Liberia. C’è il concreto rischio di epidemie, soprattutto colera. Scarseggiano i viveri e in molti casi mancano acqua e luce nelle case.

La situazione in cui versa la Costa d’Avorio è una minaccia per la pace internazionale, sono parole pronunciate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu alla vigilia del voto di ottobre. La spaccatura in due del Paese che dura da quasi dieci anni e vede un nord controllato dai ribelli e un sud capeggiato dal Governo, ha portato le Nazioni Unite a prolungare le sanzioni economiche. Embargo sulle armi, restrizione degli spostamenti per alcuni cittadini e per i movimenti finanziari, soprattutto per quelli legati all’importazione dei “diamanti insanguinati”, embargo delle esportazioni in Europa ed embargo dei medicinali decretato da Bruxelles per punire Gbagbo.

Dal 2004, e con parecchi rinnovi, è presente nel Paese la missione di peacekeeping Onuci, per facilitare la realizzazione dei trattati di pace firmati nel corso degli anni e mai messi in pratica. I militari francesi della missione ‘Licorne’ sono presenti nell’ex-colonia dal 2002 con il mandato di sostenere l’Onuci, attualmente forte di 10.500 caschi blu.

L’intervento militare delle forze dell’Onu e della Francia dei giorni scorsi ha suscitato le prime perplessità da parte dei capi di stato africani. In primis il Sudafrica, che pur avendo votato in sede del Consiglio di sicurezza l’ultima risoluzione sulla Costa d’Avorio (n° 1975, varata il 30 marzo), prende le distanze dall’intervento militare. “Ci sono significative perdite in vite umane in Costa d’Avorio. Certamente l’Unione africana ha fatto pressioni per il riconoscimento di Ouattara ma ciò non significa dover fare la guerra e autorizzare l’intervento di un esercito straniero” ha detto da Ginevra dove si trova in visita il capo di stato della Guinea equatoriale, Teodoro Obiang, attualmente presidente di turno dell’Ua.

Come molti altri stati africani la Costa d’Avorio ha risorse infinite. Il Paese è il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. L’economia è una delle migliori del continente e questo potrebbe far gola a molti, a cominciare dalla Francia.

Di quel che sarà del paese non si può dire molto, se non che le possibilità di pace sono ridotte a un lumicino. Ma se ci sarà una guerra, sarà solo in Costa d’Avorio?

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di Antonio Picasso

Yemen e Costa d’Avorio: ovvero crisi marginali. Solo ieri, la comunità internazionale ha espresso la preoccupazione per il rischio di guerra civile che entrambi i Paesi stanno attraversando. Nel primo, la giornata è stata nuovamente testimone di ulteriori scontri. A Taiz, con il suo mezzo milione di abitanti e unico polo industriale del Paese, le manifestazioni hanno portato alla morte di una ventina di persone. La strage ricorda quella di Sana’a due settimane fa, con 52 vittime e la diserzione in massa dei militari, tra cui il generale Ali Mohsen al-Ahmar, ex Capo di Stato maggiore.

La sua persistenza al potere del presidente, Ali Abdullah Saleh, è in contraddizione con quanto egli stesso sta dichiarando da un mese a questa parte. Il leader yemenita, infatti, al potere da oltre trent’anni, ha offerto l’apertura di un tavolo di confronto con le opposizioni. Queste vi hanno creduto inizialmente. Al punto che è stata tracciata anche una road map per il dopo Saleh, con il suo vice, Abdu Rabu Hadi, che dovrebbe fare da Capo dello Stato provvisorio, coadiuvato da un consiglio per la ricostruzione politica del Paese, Tuttavia, le parole del presidente non sono state seguite dai necessari gesti concreti. Le forze anti governative non riescono ad avere la meglio nemmeno sul piano operativo. Sempre ieri, le unità dell’esercito che si sono ribellate hanno respinto sì l’attacco dei poliziotti, senza ottenere però quella vittoria sul campo che sarebbe utile per controllare il Paese. Lealisti e contestatori, infatti, sono smembrati solo in termini concettuali. Non c’è una linea del fronte, ma chi è ancora in favore di Saleh e chi, invece, lotta per abbatterlo. La distrazione della comunità internazionale non agevola nessuna delle due parti. Appare tardivo infatti il ritiro di Washington del suo appoggio a Saleh, giunto solo ieri.  

Del resto il Paese, per quanto occupi una posizione strategica nelle rotte commerciali est-ovest del mercato globale, ha sempre fatto da “sorella povera” nell’ambito della penisola arabica. Privo com’è di risorse petrolifere e tradizionalmente legato agli usi clanici. L’analisi geopolitica non si occupa dello Yemen se non nei casi di emergenza relativi ad al-Qaeda e pirateria. Entrambi però oggi risultano marginali, rispetto alle criticità che sta attraversando il Paese in queste settimane. La sua rivoluzione, per quanto uguale a quelle in Egitto, Libia, Tunisia e Siria, non incide nemmeno sulla rivalità confessionale tra la maggioranza sunnita e la ridotta ma agguerrita comunità sciita degli zaidithi. Dal canto loro, le istituzioni a Sana’a hanno perso il loro sostegno principale, l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak. Caduto il faraone, anche le ragioni di una permanenza al potere da parte di Saleh sembrano insostenibili. Tra l’Egitto e lo Yemen c’è sempre stata sintonia per il mantenimento della sicurezza in Mar rosso e per disturbare la potente monarchia saudita. Al Cairo, oggi, la struttura governativa è acefala. Lo Yemen, quindi, ne paga le spese con un’eventuale caduta di Saleh e con il rischio di una guerra civile, che dividerebbe nuovamente il Paese in due realtà indipendente, una al nord e l’altra al sud, come ai tempi della guerra fredda.

Diverso è il caso della Costa d’Avorio. L’identità del conflitto, qui, è tutta africana. C’è un presidente uscente, Laurent Gbagbo, che rifiuta la sconfitta elettorale e c’è un rivale, Alassane Ouattara, che invece reclama il potere, in nome delle scelte che la popolazione avrebbe alle elezioni del 31 ottobre 2010. Entrambi hanno deciso che, una volta chiuse le urne, la soluzione migliore per stabilire chi sia il vero presidente sia quella armata. Che la situazione potesse degenerare era nell’aria da oltre quattro mesi. Ma l’ondata di violenze si è scatenata solo negli ultimi giorni. Nel passato fine settimana, sono stati contati circa mille morti. Le forze repubblicane hanno attaccato l’ex capitale, Abidjan, e si sono concentrati nel cingere d’assedio il vecchio Palazzo presidenziale e la sede della radio-televisione nazionale, attualmente nelle mani dei ribelli. Ieri però, si è percepita una sorta di quiete prima della tempesta. “Il silenzio prima dell’assalto finale”, ha scritto ieri Le Figaro. Ai combattimenti si sono sostituite le operazioni di evacuazione degli stranieri presenti nel Paese, soprattutto francesi e cinesi, e l’arrivo di altri 150 uomini agli ordini del governo di Parigi. Sono 1.650 i soldati francesi dislocati in territorio ivoriano. Vanno a sommarsi ai 10mila caschi blu già presenti in loco. È plausibile pensare che, una volta sgomberato il campo dai civili e con i soldati appostati a mo’ di osservatori armati fino ai denti riprenderanno le violenze. Tant’è che l’Unione europea ha lanciato l’allarme sul rischio della crisi umanitaria in cui starebbe precipitando la Costa d’Avorio. La popolazione ivoriana non è nuova a drammi di questo genere. Tra il 2002 e il 2007, la guerra civile provocata da Guillaume Soro era stata combattuta sempre contro Gbagbo, il quale da ormai un decennio non riesce a essere scalzato. Nemmeno dalla Francia, palesemente intenzionata a riconquistare il controllo della regione.

pubblicato su Liberal del 5 Aprile 2011

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