«In oltre trent’anni di servizio alla Croce Rossa, questa è la prima volta che vengo invitato a un dibattito sull’Afghanistan». Il tono di voce lascia trasparire l’emozione provata da Alberto Cairo. Recentemente l’Università Bocconi ha ospitato un convegno promosso dalla Cri, dal titolo “Afghanistan: quale ricostruzione?” e al quale ha preso parte appunto Alberto Cairo, direttore del centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr). L’“Angelo di Kabul” – come è noto Cairo nel mondo delle Ong – è arrivato per la prima volta nel Paese degli aquiloni nel 1988. Sua è stata l’idea di fondare nella capitale afghana un centro ortopedico per le vittime di mine antiuomo, in cui siano gli pazienti disabili a riabilitare altri disabili. L’iniziativa, raccontata dallo stesso Cairo in “Mosaico afghano” (Einaudi), mira al diretto coinvolgimento della popolazione locale per quanto riguarda la cura dei mutilati di guerra.
Nel nostro incontro con Cairo, l’Afghanistan è stato alleggerito del suo abito di mera questione geopolitica, per assumere la tinta di un Paese abitato da una popolazione vittima di un conflitto senza fine. «Dopo un isolamento pluridecennale, gli afghani sembrano confusi. Appaiono disorientati dall’enorme e improvviso interesse con cui il mondo li guarda. Il Paese, tuttavia, è vittima dei grandi egoismi interni e cinici piani internazionali». Moderno, tradizionalista, teocratico, democratico alla occidentale, oppure autoritario? Queste sono le domande che circolano in seno alla società afghana, la quale non è in grado di stabilire autonomamente una rotta per il futuro immediato.
In quanto testimone di prima linea dei tre decenni du guerra, chiediamo a Cairo in cosa e se sia migliorata la vita quotidiana delle famiglie e dei singoli cittadini. Inaspettatamente, il suo non è un giudizio del tutto negativo. «In effetti, dopo la chiusura ermetica decretata dal regime dei talebani, negli ultimi dieci anni possiamo osservare un’apertura al mondo», osserva. «Si tratta di un progresso favorito anche dalle nuove tecnologie, telefoni cellulari e internet soprattutto. Questo rappresenta un’opportunità che prima non c’era. Tuttavia, gli afghani hanno beneficiato in quantità e maniera molto diversa degli ingenti capitali e dei finanziamenti inviati dall’estero e degli ambiziosi piani di sviluppo che fanno parte del grande progetto di ricostruzione». Un esempio è offerto dall’istruzione. Cairo riconosce come dal 2001 a oggi, il maggiore successo del Paese si può riscontrare nella riapertura delle scuole. Il numero di alunni e studenti è decuplicato. Tuttavia la qualità del servizio offerto non è aumentata nella stessa misura. Le nuove generazioni vanno a scuola, ma non usufruiscono di un servizio adeguato alle esigenze di crescita economica e sociale del Paese.
Detto questo, Cairo ricorda che l’Afghanistan resta uno dei Paesi più poveri del mondo, dove «la distanza tra abbienti e meno abbienti, ma in questo caso sarebbe meglio parlare di coloro che non hanno proprio nulla, è in continuo aumento. Le campagne hanno ricevuto meno delle città. Qui è venuta a formarsi una nuova categoria di benestanti, che ruota intorno alla comunità internazionale. Nel frattempo, presso le aree extraurbane, i poveri continuano a rappresentare la stragrande maggioranza della società». «Essi appaiono frustrati per le mancate promesse degli stranieri e dei politici locali. Pagano uno scotto psicologico per le ostentate ricchezze della classe dirigente nazionale. Sono moltissimi coloro che vivono a cavallo della soglia di povertà. Basta un niente, una morte improvvisa o una malattia in famiglia, a farli cadere nell’indigenza».
«Dottor Cairo – gli chiediamo – lei ha una percezione molto più diretta dei sentimenti dei singoli cittadini, rispetto a qualsiasi analista. Sulla base della sua esperienza personale, cosa sono, per l’afghano medio, concetti quali fondamentalismo, burqa, talebani, jihad? Insomma, com’è visto in Afghanistan ciò contro cui combatte l’Occidente?» Il nostro interlocutore si sente costretto a ricordare che il Paese di cui stiamo parlando non può essere osservato sulla base dei schemi concettuali del mondo occidentale. «Quello che per la nostra società è fondamentalismo, per parecchi cittadini afghani è una necessaria barriera contro la corruzione della modernità. La jihad, da noi chiamata guerra santa, è la difesa del Paese dalle ideologie empie e distruttive. Inoltre, non possiamo dimenticare che, in molte regioni, i talebani erano e restano membri della comunità locale». Il volontario Cri riflette sulla impossibilità di sradicare i talebani dall’Afghanistan perché è lì che sono nati. «Se poi guardiamo la condizione della donna, ci rendiamo conto di come le cose siano ancora più complesse: per ragioni culturali e religiose. Tanti sono gli afghani che si domandano le motivazioni per cui i nostri media ne parlino tanto». «Non ne vedono la ragione – insiste Cairo – un po’ per ignoranza, un po’ per orgoglio. Come dicono loro: “Sono cose nostre! Decidiamo noi!” Solo i più istruiti, ma restano una minoranza, ne intuiscono la portata. Tuttavia, anch’essi con riserva. Fra le donne stesse, solo una parte considera il burqa una costrizione esteriore da combattere. In termini di giudizio generale e secondo il suo popolo, l’Afghanistan ha ben altre le priorità».
A questo punto allora, cos’è la democrazia agli occhi del popolo afghano? «Ho provato a fare la stessa domanda alle persone che ho incontrato. Mi hanno risposto press’a poco: “il dare voce a tutti, eleggere dei veri rappresentanti, meno ingiustizia, più benessere”. Ho chiesto anche: “tu cosa daresti, quale potrebbe essere il tuo contributo affinché l’Afghanistan diventi democratico?” La risposta che ho ricevuto è stata quasi sempre la stessa: “Ho già pagato abbastanza, tocca agli altri”. Sempre gli altri». Cairo, a questo proposito, si sofferma su un suo ricordo personale. «Nel 2001, Tiziano Terzani mi chiese se la democrazia fosse il regime giusto per il Paese. Ero emozionato nel trovarmi di fronte a una persona per la quale provavo grande ammirazione e sospreso per la domanda, restai a bocca aperta. Francamente, non so rispondere neanche adesso. Posso però dire che molti afghani sostengono che il loro Paese abbia bisogno di un uomo forte».
A questo punto viene automatico riflettere sulla condizione contraria, vale a dire sul perché un Paese ricco di una storia millenaria com’è l’Afghanistan, resti arroccato alla legge tribale. Perché, invece, sulla base di questa lunghissima tradizione, non ha intrapreso un cammino evolutivo che è invece proprio di altre società? «È risaputo – risponde Cairo – l’Afghanistan è insofferente alle leggi e ama le tradizioni, tanto da farle prevalere, convinto che rinunciare a costumi e usanze voglia dire perdere la propria identità. Il Paese non ha mai avuto un governo centrale forte. Regioni, etnie, tribù e clan sono i suoi veri motori. Logico che, in una situazione di questo genere, le leggi tribali e le usanze non possano che avere la meglio, divenendo l’indispensabile punto di riferimento per tutti. Personalmente sono convinto che questo stato di cose prevarrà fino a quando le autorità di Kabul non avranno acquistato la giusta capacità di influenza politica e, al tempo stesso, non sarà migliorato il livello di istruzione generale».
«Dottor Cairo, potrebbe spiegare al lettore di liberal la sua attività sul campo e quella della Croce Rossa?» «Il mandato del CICR è quello di alleviare le sofferenze causate dalla guerra», spiega il rappresentante dell’organizzazione. «Noi siamo presenti in Afghanistan dal 1987. Lavoriamo negli ospedali e nelle cliniche. Portiamo avanti progetti di rilancio dell’agricoltura. Ci occupiamo della condizione sanitaria dei detenuti e del ricongiungimento delle famiglie separate. Provvediamo alla distribuzione dell’acqua potabile e alla costruzione dei sistemi fognari». «Il mio impegno, nello specifico, è concentrato nella riabilitazione fisica e nel reinserimento sociale delle persone disabili. Il programma opera attraverso sette centri di riabilitazione situati nelle principali città. Qui si fabbricano 15mila protesi e ortesi ogni anno, carrozzine e stampelle. Viene offerto un servizio di fisioterapia e di assistenza domiciliare. Il reinserimento sociale è perseguito attraverso progetti di istruzione, corsi professionali, micro prestiti e impiego. Nato in origine a escluviso beneficio delle vittime di guerra, oggi il programma assiste ogni tipo di disabili. Gli oltre settecento impiegati sono ex-pazienti che assistono altre vittime. Devo dire che è un lavoro entusiasmante, dove si rimettono in piedi, fisicalmente e socialmente, persone che la disabilità aveva costretto a una vita al margine della comunità. Lo scopo è ridare loro piena dignità».
A proposito delle mine, l’opinione comune è che il nostro Paese sia tra i primi fabbricatori di questo ordigno di morte. Alberto Cairo rivede questa intepretazione dell’accaduto. «È vero – osserva – l’Italia, in passato, ha importato in Afghanistan queste armi. Ha pertanto gravissime colpe e responsabilità. Oggi però è impegnata nello sminamento e nell’alleviazione delle sofferenze delle vittime». «Più in generale, comunque, il lavoro delle Ong italiane e della Cooperazione del Ministero degli Esteri è positivo. Sulle attività militari del nostro esercito non posso esprimermi. Tuttavia, devo dire che, negli ultimi anni, si è assistito a una vera invasione del campo umanitario da parte delle Forze Armate, le quali sostengono di fare lo stesso lavoro delle Ong». «Non è vero – obietta Cairo – se nessuno può negare che i progetti umanitari dei soldati portino benefici, è altrettanto chiaro che hanno spirito, finalità e modi d’attuazione tutti loro. Noi, assieme a organizzazioni come Medici senza Frontiere, Emergency, Oxfam e tante altre siamo esclusivamente umanitari. Neutrali. I soldati invece, schierati a sostegno del governo contro l’opposizione, sono necessariamente di parte. L’aiuto che portano è legato a obiettivi militari, subordinato a essi, per vincere, insieme alle battaglie, “cuori e menti”. Succede così che distribuzioni di cibo o ricostruzioni di cliniche e scuole avvengano in zone di importanza strategica, ma con bisogni non prioritari. Contribuiscono a migliorare i loro rapporti con le autorità locali e rendono più facili le attività di intelligence. Ma arrecano danno ai veri umanitari, che vengono considerati alla stessa stregua, confusi coi soldati, possibili bersagli».
A questa critica, viene da chiedere, in ultima analisi, cosa accadrebbe se le truppe occidentali si ritirassero in un periodo molto breve come si sta pensando in sede Nato. «Sicuramente sarebbe il caos, probabilmete la guerra civile. Non va dimenticato che le milizie dei principali signori della guerra non sono mai state disciolte, anzi negli ultimi anni si sono rafforzate grazie a finanziamenti stranieri. Se gli eserciti stranieri partissero, niente e nessuno potrebbe contenerle. L’esercito nazionale non è forte abbastanza. Allo stesso tempo, molti considerano che sia proprio la presenza delle truppe straniere a scatenare gesti di ostilità da parte di chi considera la loro presenza una vera e propria occupazione. Un circolo vizioso: i soldati arrivati dall’estero per favorire la pace diventano causa di odio e guerra».
Pubblicato su liberal del 6 novembre 2010
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