Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘INCONTRI’ Category

«Quando si parla del livello settimo di radiazioni, si fa riferimento a una classificazione qualitativa che ha impatto sull’esterno». Francesco Troiani è membro della Commissione tecnica per la sicurezza nucleare e la protezione sanitaria delle radiazioni ionizzanti. È stato inoltre presidente della Nucleco, un’impresa partecipata dall’Enea e impegnata nella gestione integrata dei rifiuti e delle sorgenti radioattive. Intervistato in merito alla crisi di Fukushima, tende a non esporsi in previsioni allarmistiche. «Non siamo in possesso di rilevamenti abbastanza chiari per poter sostenere una qualsiasi critica nei confronti delle autorità giapponesi». La giornata, infatti, si chiude con le dichiarazioni di Tokyo sull’upgrade al settimo livello. Tuttavia, la stessa linea non è stata adottata dall’Aiea. «Già questa discrepanza di vedute impedisce una visione uniforme del fenomeno».
Presidente, cosa significa “livello settimo”? Come si può spiegare ai non addetti ai lavori?
Dobbiamo ricordarci che dal primo al terzo livello, si parla semplicemente di guasti e anomalie. Si tratta di casi in cui non vengono rilasciate radiazioni all’esterno del reattore. Se si vuole, si può parlare banalmente di incidenti. I livelli superiori, invece, includono ripercussioni più serie. Fino appunto ad arrivare all’ultimo stadio, il settimo, che prevede un diretto coinvolgimento di cose e persone completamente indipendente dal reattore.
Quali sono i parametri di misurazione di questa scala di valori?
In realtà si tratta di una misurazione qualitativa e non quantitativa. Nel senso che è meramente descrittiva di uno scenario.
Come la scala Mercalli per i terremoti?
Il concetto è simile. La differenza sta nel fatto che la Mercalli effettua un’analisi del danno sismico ignorando la tipologia dell’oggetto colpito.  I sette livelli di radiazioni, ai quali i centri studi nucleari fanno riferimento, si concentrano sulla specifica incidenza potenziale sulle persone. In questo modo, viene tratteggiato un quadro di insieme dell’incidente molto più realistico rispetto a quello della scala Mercalli nei terremoti. Tuttavia, questo è un metodo che non ci permette di conoscere il cosiddetto termine sorgente. Il caso di Fukushima è esemplare.
In che senso?
Il termine sorgente è un numero o una serie di numeri che indicano il quantitativo di radiazioni rilasciate secondo un modello specifico. Nella crisi nucleare giapponese questo parametro non è conosciuto. Di conseguenza, non si può essere più precisi. È possibile parlare di livello settimo. Senza poter indicare quanta radioattività sia stata dispersa all’esterno del reattore.
Ma a questo punto, qual è il rischio radiazioni nelle regioni fuori dal Giappone?
Bisogna chiarire un punto: il livello di radiazioni è misurabile ovunque. Anche qui in Italia, se uno volesse, potrebbe recuperare un dato ben preciso. Questo però non vuol dire che siamo in pericolo. Anzi, si può addirittura osservare che appena fuori dai confini dell’arcipelago nipponico, la crisi di Fukushima sta avendo una ricaduta ridotta. I valori registrati sono insignificanti. Il fatto che a dirlo siano osservatori indipendenti dalle autorità di Tokyo ci suggerisce che si tratti della verità. Siamo in una situazione di impatto ambientale ristretto in termini di area. Peraltro, secondo il ministero giapponese dell’educazione e della ricerca scientifica (Mext), i valori oltre Fukushima sembra che stiano rientrando nella norma.
E per quanto riguarda le contaminazioni generate da piogge e venti, quindi in regioni lontane dal Paese?
Anche questa è un’ipotesi di scarsa realizzazione. Gli studi dimostrano che si tratta di un allarme con un perimetro di dimensioni ridotte. Evidentemente gli osservatori locali sono in possesso di una serie di rilevamenti che noi non abbiamo. Questo permette loro di procedere con un’analisi più obiettiva e meno dettata dalla sensibilità collettiva.
Con il raggiungimento del settimo livello, si è portati a paragonare Fukushima con Cernobyl. Stessa intensità di radiazioni vuol dire disastro della medesima portata?
Come dicevo, è presto per dirlo. È vero, anche allora si arrivò a uno stadio così elevato di emissione. D’altra parte, la dispersione attuale sembrerebbe pari al 10% delle radiazioni del disastro di venticinque anni fa in Ucraina. Già questo dovrebbe ridurre gli allarmismi.

Pubblicato su liberal del 13 aprile 2011

Read Full Post »

Il video

Read Full Post »

«Le sorprese che ci riserva il Medio Oriente non sono sempre necessariamente negative». Sebbene con cautela, padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, considera gli accadimenti di Tunisia ed Egitto come una svolta epocale. Il frate francescano, bergamasco, 46 anni, è alla guida della rappresentanza a Gerusalemme dei Frati minori dal 2001. I discepoli del santo di Assisi sono presenti in Terra Santa per promuovere il dialogo interreligioso e costruire una strada di pace condivisa da tutte le anime della società mediorientale. L’ultimo decennio è stato certamente difficile. Per la Custodia, come per tutti coloro che vivono in Medioriente. È stato caratterizzato prevalentemente da eventi drammatici. Oggi, la rivolta del Cairo soprattutto appare in controtendenza con questo passato prossimo.
Padre, cosa sta succedendo?
È presto per dirlo. Da una parte, le prospettive di incertezza non possono essere negate. E queste sono la causa delle preoccupazioni di coloro che osservano i fatti in chiave realistica. Dall’altra però, la bellezza e la freschezza delle manifestazioni di piazza costituiscono un punto di rottura con la cristallizzazione dei regimi che hanno condizionato la vita politica del Medio Oriente per tanti decenni. In Europa e negli Stati Uniti, tuttavia, le rivolte del Cairo vengono seguite con apprensione. Si teme che a Mubarak succedano sistemi di governo ispirati dal fondamentalismo islamico. Credo che, in questo momento, si dovrebbe prestare maggiore attenzione ai fatti attuali e alle loro immediate ripercussioni. La caduta del Presidente egiziano non è ancora scontata e soprattutto non ci si può esporre in previsioni catastrofiste di lungo periodo. L’Egitto e tutta la regione insegnano che le evoluzioni politiche locali possono iniziare in una direzione e poi svilupparsi su canali completamente diversi. Autoconvincersi che la rivoluzione egiziana porti all’affermazione di un regime islamico di matrice fondamentalista vuol dire restare legati a un’interpretazione del mondo meramente pessimistica. Bisogna invece accogliere quanto sta accadendo come un momento di innovazione. Il Medio Oriente non è il posto degli aut-aut, bensì degli et-et. A differenza della politica occidentale, in cui le scelte sono dicotomiche e reciprocamente esclusiviste, qui la classe dirigente e la società civile tendono a mantenere aperte tutte le strade.
Come giudica, di conseguenza, la dichiarazione dei Fratelli Musulmani che non sarebbero interessati ad assumere il potere al Cairo?
Anche questa è un’eventualità. Per quanto riguarda il mondo palestinese, quale reazione stanno avendo le società di Gaza e del West Bank?
Sono realtà completamente differenti da quella egiziana. Certo, l’euforia collettiva è giunta come un’onda lunga anche in queste terre. Tuttavia, quel che si percepisce maggiormente è una cautela diffusa. Al Cairo si sta tentando di far crollare un regime ossidato sulle proprie posizioni. A Ramallah e nella Striscia, la situazione è diversa. Dato che i palestinesi sono consapevoli di questo, attendono prima di assumere una linea precisa.
Per i cristiani invece?
Per le Chiese mediorientali, la situazione è tutt’altro che tranquilla. Il rischio di un peggioramento della convivenza con la maggioranza musulmana è concreto. Ma questo noi lo sapevamo anche prima delle rivolte. È logico che, se il futuro di questi Paesi fosse caratterizzato da governi ispirati dal Corano, verrebbero accentuate le difficoltà di vita quotidiana per i fedeli della Chiesa. Questo però è solo uno scenario probabile. Non certo. A mio parere, sarà necessario almeno un paio di anni affinché quel che sta succedendo venga davvero metabolizzato.

Pubblicato su Il Riformista del 6 febbraio 2011

Read Full Post »

Ieri, altri due cristiani, di confessione siro-cattolica, sono stati uccisi in Iraq. Questa volta è toccato alla città di Mosul fare da ribalta all’accaduto. Saad e Waad Hanna, fratelli, rispettivamente di 43 e 40 anni, sono stati uccisi nella loro officina da un gruppo di uomini armati. La cronaca, così presentata, è ben lontana dal poter essere intesa come un attentato. Nel frattempo, poco lontano, un altro gruppo di combattenti che cercava di assalire la chiesa locale è stato messo in fuga dalla maggioranza della popolazione musulmana. Il gesto è stato «apprezzato fortemente» dal governatore della provincia, Athel al-Nujeifi, il quale vi ha intravisto un primo sintomo di ribellione, da parte della società civile irachena, contro le forze che mirano a destabilizzare il Paese e in difesa delle minoranze che, al contrario, fanno parte del suo tradizionale panorama etnico-religioso.
Il commento di al-Nujeifi è fondato. Evidentemente non tutto l’Iraq è pervaso dal sentimento anti-cristiano che si pensa vi si sia radicato nell’ultimo anno. Ciò non toglie che si tratti di un episodio isolato. Per poter affermare che la popolazione irachena sia a fianco dei cristiani, bisognerà attendere chissà quanto tempo. Il governo al-Maliki e l’intero assetto istituzionale sono ancora troppo giovani e deboli. Peraltro, in precedenza, nulla è stato fatto in favore delle minoranze.
Differente è il caso di Mosul. La morte dei fratelli Hanna fa pensare più a un regolamento di conti fra bande rivali, invece che un attentato a opera di gruppi jihadisti. Eventualità plausibile, vista la frammentazione in clan, tribù e gruppi armati di ogni tipo che si possono incontrare nel Paese. Al-Qaeda non è l’unica realtà attiva in Iraq a promuovere la violenza. La sua peculiarità, del resto, risiede nel riuscire ad attribuirsi la paternità degli attentati più eclatanti. In questo caso però, è permesso dubitare che siano stati gli uomini della “rete”. Prima di tutto perché questi organizzano attacchi di vasta scala. Il caso del sequestro della chiesa di Baghdad, all’inizio di novembre, con 70 morti, ne è un esempio. In seconda istanza, perché la rivendicazione è un passaggio obbligato nelle azioni qaediste. In un certo senso, il loro è un terrorismo fatto a volto scoperto.
D’altra parte, Mosul è l’ultimo girone dell’inferno iracheno. Posizionata strategicamente al nord, vicino al Kurdistan e ai più importanti giacimenti petroliferi, la capitale della provincia di Ninive non ha mai avuto un momento di pace dalla caduta di Saddam Hussein a oggi. Prima ancora il dittatore la incluse nelle sue operazioni anti-kurde. Successivamente, Mosul si è trasformata nel fronte di guerra del conflitto etnico in cui è piombato l’intero Paese. Attualmente è rivendicata dal governo autonomo del Kurdistan. Nel frattempo è considerata dalle forze di sicurezza a Baghdad come la roccaforte di al-Qaeda. La sua popolazione è quanto mai eterogenea. Kurdi, yazithi, sunniti, sciiti, ai quali bisogna aggiungere ciò che resta della comunità cristiana. Erano 50mila nel 2003, oggi sono al massimo 8mila.
«In Iraq i cristiani pagano il prezzo di questo scontro etnico-religioso perché, nell’immaginario popolare, sarebbero i complici degli eserciti di invasione statunitense e britannico», dice Padre Madros, sacerdote cattolico di origine palestinese e da sempre attento alle tragiche sorti del Medio Oriente cristiano. Considerazione interessante, la sua, che va ad accumularsi alle tante altre accuse di “collaborazionismo” attribuite alle chiese irachene. C’è chi sostiene, infatti, che i fossero troppo vicini a Saddam Hussein. E la figura di Tareq Aziz lo dimostrerebbe. Così però ci si dimentica che il defunto tiranno aveva adottato la sharia, la legge islamica, come fonte giuridica del proprio regime. I cristiani dell’Iraq di Saddam erano cittadini di serie B – dhimmi, infedeli, ma protetti solo sulla base di un’imposta. I loro pochi diritti erano gli stessi che l’Impero ottomano riconosceva ai loro padri secoli prima. Per quanto riguarda Aziz, braccio destro e figura presentabile del dittatore, è vero la sua origine era caldea, ma il fatto di aver cambiato nome, da Mikhail Yuanna com’era stato battezzato a quello noto a tutti, lascia intendere quanto Aziz fosse disposto all’abiura pur di soddisfare le proprie ambizioni di potere. Il fatto poi che oggi, condannato a morte, sia in odore di grazia, mentre la sua comunità d’origine non riesca a uscire dall’incubo delle persecuzioni e della diaspora la dice lunga su come il cristianesimo iracheno e l’ex ministro degli esteri di Saddam siano lontani.
«La lotta alla sopravvivenza delle Chiese in Iraq è un problema antico», aggiunge Padre Madros. «Possiamo dire che è simile in tutto il Medio Oriente ed è legato alla difficile convivenza con l’Islam». I cristiani erano qui prima dei musulmani e gli ebrei prima ancora. «Questo però non giustifica lo stato di guerra costante». Lasciamo da parte i retaggi storici e soprattutto le interpretazioni testi dei sacri, secondo cui ogni religione potrebbe vantare un diritto di esclusiva sulle stesse terre. Il fenomeno che abbiamo di fronte è essenzialmente politico e percorre l’intero Medio Oriente allargato. Oggi è l’Iraq, suo malgrado, a essere sotto i riflettori. All’inizio di quest’anno, però, c’erano i copti egiziani. Casi di diaspora silenziosa si incontrano poi in Algeria e nei Territori palestinesi.
Concludiamo l’elenco con la questione di Asia Bibi, la donna pakistana accusata di blasfemia e che rischia la condanna a morte. Sempre ieri, mente il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, rendeva noto l’impegno del nostro Paese affinché il presidente pakistano, Asif Ali Zardari, le conceda la grazia, è arrivata la notizia secondi cui Bibi sarebbe stata stuprata in carcere dai suoi stessi secondini.
C’è un fil rouge in tutto questo? Forse sì, ed è negativo. I drammi dei cristiani in Medio Oriente poggiano sulla frammentazione delle singole chiese, ma soprattutto su una mancanza di protezione da parte delle istituzioni locali.

 Pubblicato su liberal del 23 novembre 2010

Read Full Post »

«In oltre trent’anni di servizio alla Croce Rossa, questa è la prima volta che vengo invitato a un dibattito sull’Afghanistan». Il tono di voce lascia trasparire l’emozione provata da Alberto Cairo. Recentemente l’Università Bocconi ha ospitato un convegno promosso dalla Cri, dal titolo “Afghanistan: quale ricostruzione?” e al quale ha preso parte appunto Alberto Cairo, direttore del centro ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr). L’“Angelo di Kabul” – come è noto Cairo nel mondo delle Ong – è arrivato per la prima volta nel Paese degli aquiloni nel 1988. Sua è stata l’idea di fondare nella capitale afghana un centro ortopedico per le vittime di mine antiuomo, in cui siano gli pazienti disabili a riabilitare altri disabili. L’iniziativa, raccontata dallo stesso Cairo in “Mosaico afghano” (Einaudi), mira al diretto coinvolgimento della popolazione locale per quanto riguarda la cura dei mutilati di guerra.
Nel nostro incontro con Cairo, l’Afghanistan è stato alleggerito del suo abito di mera questione geopolitica, per assumere la tinta di un Paese abitato da una popolazione vittima di un conflitto senza fine. «Dopo un isolamento pluridecennale, gli afghani sembrano confusi. Appaiono disorientati dall’enorme e improvviso interesse con cui il mondo li guarda. Il Paese, tuttavia, è vittima dei grandi egoismi interni e cinici piani internazionali». Moderno, tradizionalista, teocratico, democratico alla occidentale, oppure autoritario? Queste sono le domande che circolano in seno alla società afghana, la quale non è in grado di stabilire autonomamente una rotta per il futuro immediato.
In quanto testimone di prima linea dei tre decenni du guerra, chiediamo a Cairo in cosa e se sia migliorata la vita quotidiana delle famiglie e dei singoli cittadini. Inaspettatamente, il suo non è un giudizio del tutto negativo. «In effetti, dopo la chiusura ermetica decretata dal regime dei talebani, negli ultimi dieci anni possiamo osservare un’apertura al mondo», osserva. «Si tratta di un progresso favorito anche dalle nuove tecnologie, telefoni cellulari e internet soprattutto. Questo rappresenta un’opportunità che prima non c’era. Tuttavia, gli afghani hanno beneficiato in quantità e maniera molto diversa degli ingenti capitali e dei finanziamenti inviati dall’estero e degli ambiziosi piani di sviluppo che fanno parte del grande progetto di ricostruzione». Un esempio è offerto dall’istruzione. Cairo riconosce come dal 2001 a oggi, il maggiore successo del Paese si può riscontrare nella riapertura delle scuole. Il numero di alunni e studenti è decuplicato. Tuttavia la qualità del servizio offerto non è aumentata nella stessa misura. Le nuove generazioni vanno a scuola, ma non usufruiscono di un servizio adeguato alle esigenze di crescita economica e sociale del Paese.
Detto questo, Cairo ricorda che l’Afghanistan resta uno dei Paesi più poveri del mondo, dove «la distanza tra abbienti e meno abbienti, ma in questo caso sarebbe meglio parlare di coloro che non hanno proprio nulla, è in continuo aumento. Le campagne hanno ricevuto meno delle città. Qui è venuta a formarsi una nuova categoria di benestanti, che ruota intorno alla comunità internazionale. Nel frattempo, presso le aree extraurbane, i poveri continuano a rappresentare la stragrande maggioranza della società». «Essi appaiono frustrati per le mancate promesse degli stranieri e dei politici locali. Pagano uno scotto psicologico per le ostentate ricchezze della classe dirigente nazionale. Sono moltissimi coloro che vivono a cavallo della soglia di povertà. Basta un niente, una morte improvvisa o una malattia in famiglia, a farli cadere nell’indigenza».
«Dottor Cairo – gli chiediamo – lei ha una percezione molto più diretta dei sentimenti dei singoli cittadini, rispetto a qualsiasi analista. Sulla base della sua esperienza personale, cosa sono, per l’afghano medio, concetti quali fondamentalismo, burqa, talebani, jihad? Insomma, com’è visto in Afghanistan ciò contro cui combatte l’Occidente?» Il nostro interlocutore si sente costretto a ricordare che il Paese di cui stiamo parlando non può essere osservato sulla base dei schemi concettuali del mondo occidentale. «Quello che per la nostra società è fondamentalismo, per parecchi cittadini afghani è una necessaria barriera contro la corruzione della modernità. La jihad, da noi chiamata guerra santa, è la difesa del Paese dalle ideologie empie e distruttive. Inoltre, non possiamo dimenticare che, in molte regioni, i talebani erano e restano membri della comunità locale». Il volontario Cri riflette sulla impossibilità di sradicare i talebani dall’Afghanistan perché è lì che sono nati. «Se poi guardiamo la condizione della donna, ci rendiamo conto di come le cose siano ancora più complesse: per ragioni culturali e religiose. Tanti sono gli afghani che si domandano le motivazioni per cui i nostri media ne parlino tanto». «Non ne vedono la ragione – insiste Cairo – un po’ per ignoranza, un po’ per orgoglio. Come dicono loro: “Sono cose nostre! Decidiamo noi!” Solo i più istruiti, ma restano una minoranza, ne intuiscono la portata. Tuttavia, anch’essi con riserva. Fra le donne stesse, solo una parte considera il burqa una costrizione esteriore da combattere. In termini di giudizio generale e secondo il suo popolo, l’Afghanistan ha ben altre le priorità».
A questo punto allora, cos’è la democrazia agli occhi del popolo afghano? «Ho provato a fare la stessa domanda alle persone che ho incontrato. Mi hanno risposto press’a poco:  “il dare voce a tutti, eleggere dei veri rappresentanti, meno ingiustizia, più benessere”.  Ho chiesto anche: “tu cosa daresti, quale potrebbe essere il tuo contributo affinché l’Afghanistan diventi democratico?” La risposta che ho ricevuto è stata quasi sempre la stessa: “Ho già pagato abbastanza, tocca agli altri”. Sempre gli altri». Cairo, a questo proposito, si sofferma su un suo ricordo personale. «Nel 2001, Tiziano Terzani mi chiese se la democrazia fosse il regime giusto per il Paese. Ero emozionato nel trovarmi di fronte a una persona per la quale provavo grande ammirazione e sospreso per la domanda, restai a bocca aperta. Francamente, non so rispondere neanche adesso. Posso però dire che molti afghani sostengono che il loro Paese abbia bisogno di un uomo forte».
A questo punto viene automatico riflettere sulla condizione contraria, vale a dire sul perché un Paese ricco di una storia millenaria com’è l’Afghanistan, resti arroccato alla legge tribale. Perché, invece, sulla base di questa lunghissima tradizione, non ha intrapreso un cammino evolutivo che è invece proprio di altre società? «È risaputo – risponde Cairo – l’Afghanistan è insofferente alle leggi e ama le tradizioni, tanto da farle prevalere, convinto che rinunciare a costumi e usanze voglia dire perdere la propria identità. Il Paese non ha mai avuto un governo centrale forte. Regioni, etnie, tribù e clan sono i suoi veri motori.  Logico che, in una situazione di questo genere, le leggi tribali e le usanze non possano che avere la meglio, divenendo l’indispensabile punto di riferimento per tutti. Personalmente sono convinto che questo stato di cose prevarrà fino a quando le autorità di Kabul non avranno acquistato la giusta capacità di influenza politica e, al tempo stesso,  non sarà migliorato il livello di istruzione generale».
«Dottor Cairo, potrebbe spiegare al lettore di liberal la sua attività sul campo e quella della Croce Rossa?» «Il mandato del CICR è quello di alleviare le sofferenze causate dalla guerra», spiega il rappresentante dell’organizzazione. «Noi siamo presenti in Afghanistan dal 1987. Lavoriamo negli ospedali e nelle cliniche. Portiamo avanti progetti di rilancio dell’agricoltura. Ci occupiamo della condizione sanitaria dei detenuti e del ricongiungimento delle famiglie separate. Provvediamo alla distribuzione dell’acqua potabile e alla costruzione dei sistemi fognari». «Il mio impegno, nello specifico, è concentrato nella riabilitazione fisica e nel reinserimento sociale delle persone disabili. Il programma opera attraverso sette centri di riabilitazione situati nelle principali città. Qui si fabbricano 15mila protesi e ortesi ogni anno, carrozzine e stampelle. Viene offerto un servizio di fisioterapia e di assistenza domiciliare. Il reinserimento sociale è perseguito attraverso progetti di istruzione, corsi professionali, micro prestiti e impiego. Nato in origine a escluviso beneficio delle vittime di guerra, oggi il programma assiste ogni tipo di disabili. Gli oltre settecento impiegati sono ex-pazienti che assistono altre vittime. Devo dire che è un lavoro entusiasmante, dove si rimettono in piedi, fisicalmente e socialmente,  persone che la disabilità aveva costretto a una vita al margine della comunità. Lo scopo è ridare loro piena dignità».
A proposito delle mine, l’opinione comune è che il nostro Paese sia tra i primi fabbricatori di questo ordigno di morte. Alberto Cairo rivede questa intepretazione dell’accaduto. «È vero – osserva – l’Italia, in passato, ha importato in Afghanistan queste armi. Ha pertanto gravissime colpe e responsabilità. Oggi però è impegnata nello sminamento e nell’alleviazione delle sofferenze delle vittime». «Più in generale, comunque, il lavoro delle Ong italiane e della Cooperazione del Ministero degli Esteri è positivo. Sulle attività militari del nostro esercito non posso esprimermi.  Tuttavia, devo dire che, negli ultimi anni, si è assistito a una vera invasione del campo umanitario da parte delle Forze Armate, le quali sostengono di fare lo stesso lavoro delle Ong». «Non è vero – obietta Cairo – se nessuno può negare che i progetti umanitari dei soldati portino benefici, è altrettanto chiaro che hanno spirito, finalità e modi d’attuazione tutti loro. Noi, assieme a organizzazioni come Medici senza Frontiere, Emergency, Oxfam e tante altre siamo esclusivamente umanitari. Neutrali. I soldati invece, schierati a sostegno del governo contro l’opposizione, sono necessariamente di parte. L’aiuto che portano è legato a obiettivi militari, subordinato a essi, per vincere, insieme alle battaglie, “cuori e menti”. Succede così che distribuzioni di cibo o ricostruzioni di cliniche e scuole avvengano in zone di importanza strategica, ma con bisogni non prioritari. Contribuiscono a migliorare i loro rapporti con le autorità locali e rendono più facili le attività di intelligence. Ma arrecano danno ai veri umanitari, che vengono considerati alla stessa stregua, confusi coi soldati, possibili bersagli».
A questa critica, viene da chiedere, in ultima analisi, cosa accadrebbe se le truppe occidentali si ritirassero in un periodo molto breve come si sta pensando in sede Nato. «Sicuramente sarebbe il caos, probabilmete la guerra civile. Non va dimenticato che le milizie dei principali signori della guerra non sono mai state disciolte, anzi negli ultimi anni si sono rafforzate grazie a finanziamenti stranieri. Se gli eserciti stranieri partissero, niente e nessuno potrebbe contenerle. L’esercito nazionale non è forte abbastanza. Allo stesso tempo, molti considerano che sia proprio la presenza delle truppe straniere a scatenare gesti di ostilità da parte di chi considera la loro presenza una vera e propria occupazione. Un circolo vizioso: i soldati arrivati dall’estero per favorire la pace diventano causa di odio e guerra».

Pubblicato su liberal del 6 novembre 2010

Read Full Post »

Older Posts »