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Archive for the ‘Diario israeliano’ Category

“Gerusalemme! Gerusalemme!” È con il titolo del romanzo di Dominique Lapierre e Larry Collins che riprendo questo diario. Sono tornato nella città tre volte santa, ma settanta volte sette (o pure più) martoriata dalla storia. Sono arrivato al seguito dell’Associazione Parlamentare di amicizia Italia-Israele. Un’occasione per conoscere un’altra Israele, l’ennesima sfaccettatura di questo Paese. Un’opportunità per rientrare nei Territori e capire lo sguardo che si scambiano ebrei, musulmani e cristiani, arabi e israeliani. “Questo è un Paese fatto di muri”, mi dice l’amico Bruno Poggi, anche lui al seguito della delegazione. Cammino di nuovo tra i ciottoli scivolosi della città vecchia. Li osservo nelle loro svariate dimensioni. Quelli più grandi sono di epoca romana. Poi c’è il lastricato dei crociati. Infine arrivarono gli ottomani. Infine… Di Gerusalemme si potrebbe conoscere la storia e leggerne l’anima già dalla sola osservazione della pavimentazione all’interno della città vecchia. O forse no. Non basterebbe affatto. Perché ne resterebbe escluso il Montefiori, Me’a She’arim, al-Quds and so on. Passo dopo passo mi accorgo che la Città Santa è come una spiaggia, dove ininterrottamente vi si schiantano ondate di civiltà. Come le onde: mai una uguale all’altra. Guerre, separazioni, odi risorti e odi sopiti, tentativi di pace e prove di convivenza. Per poi essere buttato tutto all’aria improvvisamente. Perché basta un colpo di pistola per scatenare di nuovo l’inferno. Quindi punto e a capo. E si innalzano muri. Muri che emergono da scavi archeologici, scavi che fanno arrabbiare qualcuno perché suonano come una provocazione. Una dissacrazione della loro piccola fetta di rispettabilissima fede. Muri baciati dalla natura, tra sole, vento e pioggia. Testimoni di pulsioni violente e collettive, per le quali uno ha tutto il diritto di chiedersi: “Ma perché? Perché diavolo non riuscite a stringervi le mani e ragionare una buona volta? Dopo sessant’anni!” Poi ti rendi conto che le risposte a queste domande già le sai, che troppe sono le ragioni. Mai termine fu tanto contradditorio quanto questo, specie se legato alla guerra non stop tra israeliani e palestinesi. E allora inforchi di nuovo gli occhiali da cronista, o da analista che sia, oppure sa semplice viaggiatore che associa colori, profumi e luci del posto che visita alla cultura in cui si è immerso. E qui di cultura si affoga. Si muore.

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Majdal Shams (Alture del Golan) – A. è una ragazza bellissima, ha 30 anni, due figli e un sorriso luminoso che le scintilla negli occhi verdi. Abita a Majdal Shams, un villaggio druso del Golan, al confine con la Siria. La zona è famosa perché la frontiera, sorta dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, ha spaccato in due praticamente tutte le famiglie che vi abitano. Qui vicino c’è quella che chiamano la Shouting hill, la collina delle grida dove la gente sale per comunicare a fratelli, cugini e amici se è morto qualcuno, oppure se c’è stato un matrimonio o la nascita di un bimbo. Israele e Siria non si parlano. Non hanno contatti. La prima a farne le spese è appunto questa minoranza etnico-religiosa, spaccata dalle guerre in cui loro sono stati coinvolti senza volerlo. Hegel avrebbe parlato di immanentismo storico. Vista sul posto la situazione è un po’ più complicata.
Ci sono Drusi peraltro anche in Libano. Ma quelli sono un caso a parte. Per alcuni aspetti.
Majdal Shams è un po’ il cuore pulsante di questa micro-diaspora di cui nessuno si interessa. Nella sua piazzetta principale c’è un monumento. È un gruppo di statue dal colore un po’ plumbeo. I volti ieratici sono orientati tutti verso Israele, dando le spalle quindi alla frontiera. Rappresentano la resistenza verso un governo che i locali considerano ostile. Qualche temerario vi ha issato pure una bandiera. Non vorrei metterci la mano sul fuoco, però mi sembra quella siriana… Non è il caso di fare foto qui. Sento un’aria di precarietà, di sospensione in una storia che avrebbe dovuto essere passeggera e che invece non finisce.
In contrasto con le inimmaginabili difficoltà politiche alle quali sono soggetti ogni giorno, i Drusi sono riusciti a costruire una solida economia locale, in cui domina la pastorizia, la piccola agricoltura e il commercio tra un villaggio e l’altro. Non si può dire che siano autosufficienti e nemmeno ricchi. Hanno imparato a cavarsela. Restano fieramente austeri drusi. Entrando in una delle cinque banche del villaggio per cambiare i miei euro in shekel, faccio una lunga coda prima di arrivare al desk. Davanti e dietro di me scruto questi lavoratori dalle mani callose – pastori, artigiani, trasportatori di chissà cosa – venuti a versare i loro risparmi che da anni accumulano esclusivamente nelle loro banche. Anche loro mi osservano. Sono un forestiero, palesemente non israeliano. Qualcuno mi regala un sorriso. Per questa gente il problema della frontiera non è solo un limite alla loro economia, ma prende i cuori, spezza in due i sentimenti, brucia dentro.
A. mi invita a casa sua, dove c’è tutta la sua famiglia che vuole conoscere appunto questo straniero che viene da lontano. Mi immergo in questo microcosmo su indicazione del portiere dell’albergo dove mi sono fermato a dormire. Questo mi ha detto che alcune famiglie di Majdal Shams sono liete di ospitare per una sera a cena i pochi viaggiatori che passano da queste parti. Per un piccolo contributo economico, ovviamente. Per me è un’occasione da non perdere.
Entro, mi levo subito le scarpe e mi siedo su quei tipici divani arabi che toccano per terra. La stanza è un piccolo mafrage: cuscini a volontà, la stufa a legna al centro, un angolo che fa da cucina e tante foto alle pareti. Mangio con loro fino a sazietà. Condividiamo il caffé, quello che va bevuto con pazienza, per far sedimentare la polvere. Ma soprattutto parliamo.
In realtà è A. che tiene banco. Con il suo inglese americano per nulla diverso da quello della ragazzetta del Tel Aviv Airport. Devo ammettere che la lucentezza dello sguardo mi mette quasi in imbarazzo. Mi racconta che lei è una drusa del Golan, ma che suo marito è di Haifa. È lì che insegna lei, in una scuola di bambini drusi e cristiani insieme. “No di ebrei non ce ne sono”, aggiunge prima che glielo chieda io.
Non facile essere di queste parti”, riflette ad alta voce, guardando il resto della famiglia. La madre soprattutto. Quest’ultima ha il volto tirato dal dolore. Lo scorso anno ha perso un fratello in un incidente d’auto. I genitori, che vivono in Siria, non hanno potuto assistere al funerale del figlio. “Avrò pure il diritto di piangere per tutto questo no?” Mi dice la signora.
Per attraversare un confine di nemmeno dieci chilometri – continua A. – dobbiamo passare dalla Giordania e da lì in Siria. Solo che il pedaggio dell’Allenby Bridge è caro. Di solito si pagano 10 dinari (poco meno di 10 euro) a testa. Per noi del Golan il costo sale a 33 dinari. I soldati sanno che veniamo dal Golan, quindi ne approfittano per renderci la vita più difficile. E poi ci vuole il visto israeliano. Ma noi siamo apolidi, non abbiamo passaporto. Quindi dove lo mettiamo il visto?”
Medio Oriente…
A noi non interessa la politica. Questi sono affari che non dovrebbero riguardarci! Invece è lei che ci arriva impetuosa nei nostri villaggi, si incunea nei vicoli e penetra nelle case”. L’immagine mi ricorda il Leviatano.
A quel punto la figlioletta di A. mi si tuffa in braccio, mi strappa gli occhiali e li getta nel riso. È il modo migliore per incrinare un cristallo di tensioni e sentimenti bui che stanno emergendo.

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Alture del Golan – Da Tel Aviv ad Haifa, dove ho incontrato Yehoshua, passando per Zefat. Ora sul Golan! Eccomi adesso davvero in Medio Oriente. O almeno quello che ho conosciuto in altri viaggi. Il Medio Oriente delle strade polverose e solitarie, del traffico disordinato nei piccoli villaggi e di un senso di apparente povertà che mi viene suggerito dalle case non ancora terminate di costruire, ma dove la gente già ci vive.

Ma tutto questo è un pregiudizio che ho in testa e che mi crolla come un castello di carta. Il percorso finora compiuto, per quanto solare, fa parte anch’esso del Medio Oriente, come tutto il resto di questo mondo sempre diverso e sempre in evoluzione che sto attraversando. Adesso, salendo sul Golan, ho semplicemente passato una linea – e che linea! – tra una sfaccettatura e l’altra di un unico prisma, umano e culturale, fascinoso e drammatico insieme.

Mi sono lasciato alle spalle l’esuberanza della Israele costiera. Ho abbandonato dietro di me lo spiritualismo coinvolgente dei rabbini di Zefat. Ora sono arrivato in un punto di tensione.

Se vogliamo essere analisti, le Alture del Golan sono ancora un epicentro di crisi.  Senza mezzi termini, mi pare di essere su un fronte di guerra dalla bassa temperatura, il cui fuoco cova sotto la cenere. Ma basterebbe un colpo di vento per riaccenderne la fiamma. In macchina ho attraversato strade delimitate da campi minati recintati. Ho rallentato di fronte a quei cancelli gialli che ogni tanto Tzahal chiude per sicurezza e senza alcun preavviso, nel caso si riaccendano gli animi. Isolando così villaggi o singole fattorie, magari anche per giorni interi.

Provo le stesse emozioni del viaggio in Libano ormai di due anni fa. Allora sul Litani, oggi sul Golan. Ieri un fiume, oggi le montagne. Luoghi di storia e testimonianze, dove il vento lascia correre nell’eternità le voci di chi qui ha combattuto e magari ci ha lasciato la pelle. La Natura è feroce. Quando vede che con le nostre guerre le abbiamo stuprato un suo mondo, Lei ce lo fa ricordare. E lo farà per sempre. È così in Normandia, a Montecassino, sul Litani… e pure qui sul Golan, sulle mitiche Alture del Golan le voci del passato non troveranno mai silenzio.  

Ho avuto la sensazione di essere sempre osservato. Non da fantasmi, non esageriamo, ma da chi vuol sapere tutto di chi passa da queste parti. Sicurezza! Sicurezza! Sicurezza! Il leitmotiv israeliano rimane costante ed esplicito. Per loro, mai abbassare la guardia. Ma anche questo è un rischio. Una provocazione. Scendo a piedi tra i sentieri della riserva naturale di Banias. È straordinario. Sono in un parco nazionale uguale in tutto e per tutto a uno di quelli sulle Alpi o sui Pirenei. La brochure allegata al biglietto di ingresso nell’area boschiva dice che da qui si possono avvistare uccelli e animali rari. Un’attività per la quale mi manca decisamente la pazienza. Oltre che un teleobiettivo serio.

Il caso vuole che invece mi imbatta in un gruppo di giovani soldati israeliani, in visita anche loro alle cascate del torrente. Tzahal in gita nella fauna del Golan. Questo sì che è Medio Oriente! Sono ragazzi che devono avere più o meno tra i 18 e i 22 anni. Sembrano un gruppo di scout casinista che se ne frega sia di essere in mezzo alla natura e di ascoltarne il silenzio, sia di trovarsi dove i loro nonni quarant’anni fa morirono per la sicurezza del Paese. Sono ragazzi. Mi tirano in mezzo nella loro baldoria. Ci mettiamo a ridere, scherzare, fare foto. Intanto io guardo lontano, oltre Nimrod. Oltre quella fortezza crociata che, anche lei zitta e plumbea, è una pagina di storia e di scontri. Il quadro naturale è verde, ricco di serenità. Sopra di noi una pattuglia di elicotteri sorveglia dall’alto il confine con la Siria.

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Non mi è chiaro se la Tel Aviv-Haifa sia un’autostrada. Ne ha tutto l’aspetto: ampie corsie, spartitraffico punteggiato di piante fiorite e palme. Il film panoramico che si sviluppa oltre il parabrezza ha tutto fuorché dell’inverno in cui siamo. Due giorni fa cercavo di non scivolare sul ghiaccio a Milano, oggi sono tra mare, palmeti e un sole di 23 gradi.
Improvvisamente però, superata Haifa, comincia un altro paesaggio. Sto andando verso l’interno del Paese. Obiettivo della tappa: Zefat.
Zefat la Mistica. Ma anche Sefad, Safat, Tzfat, Safed, Zafad. Ognuno la pronuncia in un modo diverso e ogni volta che io cerco di ripeterne il suono c’è chi mi corregge. Del resto, il cuore della Cabala non poteva che avere un nome foneticamente così poliedrico. Sono in un’altra Israele. Meno spumeggiante del lungomare di Tel Aviv. Su queste montagne la sera fa freddo. Sono vicino al confine con Siria e Libano e questo un po’ mi elettrizza. Il padrone di casa dove ho affittato la camera mi invita a fare un giro e a cenare con lui in un ristorante fuori città. Salgo in macchina e noto sul cruscotto un adesivo che mi spiega in modo inequivocabile il mondo in cui mi sono appena tuffato. “Israeli air forces. Save our sky!”

Sono nel nord di Israele, dove la gente ha paura e lo dimostra molto più che a Tel Aviv. Quattro anni fa durante la guerra, i razzi di Hezbollah sparati dal Libano del Sud non hanno scalfito Zefat. Però gli abitanti del posto non si sentono tranquilli. E quella semplice etichetta è la sintesi di questo stato d’animo. Biasimarli? Dar loro torto? Per l’amor del Cielo! Sono arrivato qui per capire come si vive, non per polemizzare. Quell’adesivo è un suggerimento che di per sé basta.
Sotto il sole del mattino questo villaggio si presenta con la sua ruvida cortesia montanara. La stessa che trovi sulle Dolomiti, oppure sulle montagne sino-vietnamite. Questa è gente abituata a lunghe notti di freddo, che accoglie lo straniero come un viandante nei tempi antichi. Ma che non nega un sorriso a nessuno. È un fil rouge concreto, fatto anche di case in pietra viva, stradicciole strette, tetti di legno. Zefat però ha dalla sua, come identità unica, quella di essere il faro degli studi cabalistici e dell’ortodossia ebraica. Certo, per molti aspetti oggi il paese è alterato da una quantità un po’ eccessiva di visitatori. L’atmosfera di preghiera e di riflessione però non le viene snaturata. Gli abitanti sono proprio quegli ebrei che nella storia occidentale sono stati l’oggetto delle peggiori persecuzioni. Uomini vestiti di nero, barbuti e con le lunghe peot (o peyeot), i riccioli che la tradizione vuole non possano essere tagliati fino alla morte. Donne dalle gonne lunghe lunghe, in un qualche modo castigate. Tante varietà di grigio e di nero. Nessun altro colore indosso. A una prima lettura potrebbe sembrare di essere finito in un posto lugubre e ostile. Soprattutto contrastante con l’azzurro terso del cielo e la corona di monti che cinge il paese. Al contrario, respiro un’atmosfera di leggerezza generale. Dopo qualche momento di frenetica eccitazione fotografica, preferisco godermi il giro di Zefat ricordandolo solo nella memoria. Non voglio passare per l’intrigante straniero che vuole fotografare un uomo solo perché ha un cappellone che sembra all’apparenza buffo e tiene per mano il figlioletto vestito alla stessa maniera. Sono le tradizioni del posto. Mi adeguo a loro. Sicché decido di mettere tutto quanto in borsa, macchina e teleobiettivo, e di bighellonare tra i vicoli e le sinagoghe. Di queste a Zefat non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ognuna con i suoi antichi e preziosi codici custoditi nelle teche all’interno del tempio, sotto una coltre di muffa e di polvere che li rende ancora più sacri e inviolabili per chi non sa.
Un ebreo amico di famiglia, sapendo che sarei venuto in Israele, mi ha regalato una kippah. Mi sento onorato di indossarla per la prima volta proprio qui. È come se avessi portato con me un po’ del suo cuore. Mi piacerebbe dire anche una preghiera per lui. Mi rendo conto però che sarebbe un po’ complicato. Da credente non cattolico, con una considerazione delle Forze Superiori un po’ particolare, rivolgermi a queste ultime in una sinagoga? Troppo aggrovigliato. Meglio e soprattutto più semplice guardare in alto, ringraziare della splendida giornata e fare un sorriso.
Del resto chi prega al mio posto c’è. All’uscita da un tempio un rabbino mi si avvicina, mi mette la mano sulla fronte e mi chiede il mio nome. “Antonio!” Faccio io. “Antonio?” Ripete perplesso, comprendendo che ha a che fare con un “gentile”. Passato l’ostacolo psicologico inizia la sua benedizione. Pur non capendo nulla di quello che dice, il suono cantilenante e dolce della sua voce mi trasmette comunque spiritualità. Mi chiede anche come si chiami mia madre. “Mila!” Gli rispondo. Di nuovo lui sembra turbato. Non penso che sia il caso di spiegargli che si tratta di un nome slavo, che mio nonno le diede perché è quello della “Figlia di Iorio”, la pièce di D’Annunzio, di cui appunto mio nonno era amico. Anche questo è un arzigogolo che tralascio. Il mio amico rabbino è concentrato nel richiamare su di me la Forza e la Bellezza, affinché mi accompagnino durante il viaggio. L’emozione c’è e me la godo tutta. Uscito dal tempio mi guardo intorno ancora più serafico di prima. Mi sembra di essere un bambino che ha tra le mani un librone antico di cui non capisce assolutamente nulla, perché non sa ancora leggere. Eppure sa che il volume è prezioso e allora già solo per questo motivo si sente importante. Lo vede come un tesoro, lo accarezza e lo rimira con cura.
Della Cabala non ho mai capito nulla. Ho provato ad avvicinarmici in passato, ma con svogliatezza e scarsa concentrazione. Il risultato è stato pessimo. D’altra parte, il mondo dell’esoterismo e del misticismo non va trattato come un giocattolo. Magari tornando in Italia le cose andranno diversamente. Per il momento è abbastanza avere visto la culla

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Tel Aviv – Una ragazza mi picchia al finestrino appannato della macchina. Non ho neanche il tempo di tirare giù il vetro che lei mi domanda se sia stato io ad aver chiesto un navigatore. Parla un inglese strascicato made in Usa e non sembra aver tanto tempo da perdere. Ha le maniere spicce di chi fa un lavoro abbastanza alienante e troppo al contatto con la gente per pretendere una risposta subito. Io sono senza parole.
Che posso fare del resto? È la sera del 25 dicembre. Sono atterrato a Tel Aviv che ho ancora il pranzo di Natale sullo stomaco. Dopo il solito interrogatorio alla dogana e la questua per evitare il visto sul passaporto, ho avuto la bella notizia che il mio bagaglio è rimasto a Fiumicino. Ma sono troppo stanco per arrabbiarmi. Al desk delle valigie smarrite mi hanno assicurato che avrebbero risolto il problema il più in fretta  possibile. A dispetto del mio pessimismo, questo mi ha confortato.
Ora, mentre sto cercando di capire come si guida in Israele con il cambio automatico una macchina presa in affitto, mi trovo di fronte questa ragazzetta dal corpo finissimo e con occhiali da universitaria. La guardo inebetito. Riesco a tirar fuori uno “yes, it’s me!” che la fa scattare in azione. Apre la portiera, mi si siede accanto e mi spiega come funziona questo attrezzo che sarà la mia sola ancora di salvezza tra le montagne del Golan. E non solo lì.
La faccenda si risolve in meno di dieci minuti. Io ovviamente non c’ho capito nulla. Pazienza, mi arrangerò. Adesso voglio solo andare in albergo e dormire. Questo “Israel on the road” ha già bisogno di un fermo immagine.

***

La sveglia, dopo quattr’ore di sonno, non ha portato buoni frutti. I bagagli non sono ancora arrivati. Dal Ben Gurion Airport mi dicono laconicamente che, forse, atterreranno in serata con il prossimo volo da Roma. Esco quindi. Fuori dall’hotel una folata di vento caldo mi abbraccia. Sono a neanche duecento metri da una spiaggia dove decine di ragazzi giocano a racchettoni, alcune famiglie passeggiano sul lungomare e tutti si godono lo Shabbat. Sembra di essere in un tiepido pomeriggio di fine maggio, quando timidamente si trova il coraggio di andare al mare. Magari senza fare il bagno.
Decido di seguire l’onda di questo struscio mediterraneo. Il tac-tac delle palline colpite dai racchettoni si alterna con un vociare strano, per molti aspetti comprensibile e per altri lontanissimo. Sono le “lingue babeliche” di Tel Aviv. Russo, francese, jiddish, arabo, ebraico. Ovviamente c’è pure l’italiano che non manca mai. Frastornato dalle poche ore di sonno, ho la mente ovattata che galleggia piacevolmente in questa atmosfera così rapsodica.
Tel Aviv è viva. Solo ora mi accorgo del palindromo racchiuso nel suo nome! È un puzzle di giovani, vecchi, gente di colore – tante donne etiopi statuarie, non me l’aspettavo – poi ancora turisti, signore velate e altre storie umane che camminano e che proiettano questa città nel Terzo millennio, dissociandola da quella idea di Israele che abbiamo ogni giorno quando scriviamo o leggiamo del processo di pace.
Pace? Guerra? Cosa sono queste cose? Sì certo, gli abitanti di questa parte di Israele così festante e solare conoscono bene i problemi del loro Paese. Il passato fatto di autobus che esplodono e di madri che piangono non si cancella. In piazza Yitzhaz Rabin, il Primo ministro israeliano assassinato proprio qui nel 1995, questa cognizione del dolore collettiva è più forte. Oggi però è Shabbat e nessuno vuole parlare di politica o di religione. Oggi la Tel Aviv che mi accoglie è sdraiata assopita e sorniona sulla sua bella spiaggia. Sul lungomare, all’improvviso, c’è qualcuno che accende uno stereo. Bastano pochi minuti e almeno una trentina di persone si mette a ballare. Il loro è un ritmo armonico e circolare. È un unico corpo che si muove seguendo le note e che viene accarezzato dal vento.
Astonishing Tel Aviv! Questo è il mio primo giorno fra le strade di Israele. Sono senza bagagli. La politica l’ho lasciata in valigia. Tutto è più leggero. So che altrove il mondo non è così bello, ma il messaggio che mi trasmette questa città è che ciò che si sta cercando da sessant’anni qui è possibile.

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