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Archive for the ‘Asia centro-meridionale’ Category

Hanno sparato in acque internazionali. Ok! Devono tornare a casa. Giusto anche questo. Magari se lo chiedessimo berciando un po’ meno, gli indiani ci darebbero pure retta. Ma poi? La faccenda non si chiude così. Girone e Latorre hanno svolto soltanto il loro dovere. Anche questo è vero. Quindi reintegriamoli e pace. Ma vogliamo tirar fuori un responsabile di tutto questo caos? Esteri, Difesa e adesso direttamente lo stesso Monti si stanno facendo in quattro per risolvere la più imbarazzante crisi diplomatica vissuta dall’Italia dal post-11 settembre. La vicenda pesa non solo sull’immagine del Paese – chissenefrega dell’estetica! – ma anche sulle sue risorse. Anche questa ha un costo, che nessuno ha voglia di sostenere! I due marò erano a difesa di una nave. E nessuno di questa si è fatto avanti per dire: “Scusate, è colpa nostra”. Dov’è il comandante che, da irresponsabile, ha messo nelle mani della polizia indiana i due soldati? Dov’è soprattutto l’armatore – i Fratelli D’Amato – che ha dato l’ordine alla Lexie di approdare a Kochi?

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Hanno rispettato la data, ma non le attese. L’ordinanza con cui il giudice indiano Gopakumar ha deciso un periodo di custodia giudiziaria per i due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, è arrivata come una doccia fredda. Per i due militari italiani, il magistrato ha escluso esplicitamente un trattamento di favore, in quanto non previsto dalle leggi federali. Ha mostrato comunque di aver recepito la complessità della causa in oggetto. Quindi ha disposto in linea generale la custodia giudiziaria nella prigione centrale di Trivandrum. Inoltre ha impartito disposizione alle autorità carcerarie affinché Latorre e Girone non siano alloggiati con gli altri detenuti e siano concesse loro assistenza medica e un permesso di interagire con visitatori italiani, ogni giorno, per un’ora tra le 10 e le 13. Per quanto riguarda la richiesta di una residenza esterna al carcere, Gopakumar ha detto che questo tema non è direttamente di competenza del tribunale e che, se il direttore generale aggiunto responsabile per le prigioni lo ritenesse necessario, lo stesso giudice potrebbe adottare una decisione su questa linea. Il fermo avrà una durata di altri 14 giorni. Poi ci sarà un nuovo round.

Ce lo aspettavamo? No. Forse perché gli italiani sono ottimisti di natura, oppure perché abbiamo sottovalutato l’inflessibilità di Delhi. È il caso di ribadirlo: calpestare i piedi all’India significa scomodare un gigante per nulla assopito e costantemente suscettibile. Agli occhi dell’opinione pubblica locale, delle autorità federali, ma soprattutto dei tenaci opportunisti dell’opposizione, i nostri marò sono due omicidi. E come tali vanno trattati. Ricordiamoci che le elezioni in Kerala non si sono ancora tenute e il Bjp, il partito di opposizione a quello del Congresso, ha deciso di cavalcare proprio questo cavallo propagandistico per accusare il governo di essere più sensibile alle questioni internazionali invece che alle condizioni di vita dei poveri pescatori locali. Per inciso, Sonia Gandhi è tornata proprio ieri dagli Stati Uniti, dove si è sottoposta ad alcune visite mediche. Il legame tra l’Italia e la donna più potente dell’India è sempre stato discontinuo. Lo attesta il fatto che oggi ci si ricordi di lei in qualità di potenziale cinghia di trasmissione tra noi e loro. In passato tutto ciò è stato sottovalutato. Quando Sonia Gandhi avrebbe potuto aprirci un canale preferenziale per le relazioni economiche con Delhi, l’economia italiana si è fatta avanti in maniera molto timida. Adesso non possiamo pretendere di abbandonare il nostro ingiustificato snobbismo e che gli indiani facciano finta di nulla sulle cose passate.

Bisognava aspettarselo quindi. Perché una superpotenza, come tale (e giustamente) l’India si ritiene, non può accettare che la piccola Italia tagli le sue acque territoriali sparando alle inerme imbarcazioni. Dettagli quelli per cui la zona non fosse sotto effettiva giurisdizione indiana, oppure che gli stessi pescatori siano facili alla trasformazione in agili corsari. Inezie i cavilli legali avanzati come nostra linea di difesa. Se non fosse per il legami economici e per il fatto che i due marò indossano un’uniforme che suscita rispetto, Delhi avrebbe liquidato l’affaire in maniera molto più sbrigativa. Da qui la superficialità nell’esame balistico e il rifiuto di osservare le leggi internazionali. Per l’India la questione è di politica interna. Non ci sono né giurisprudenza né altre scienze che possano essere coinvolte.

Di questo primo uno a zero in favore della magistratura locale, la colpa non è del governo italiano. Al contrario,la Farnesinanon poteva fare di meglio. Ha messo in campo le forze migliori che aveva. Su questo la tecnicità virtuosa del governo Monti si conferma ulteriormente. Poche cancellerie avrebbero potuto sfoderare un cannone del calibro di Staffan de Mistura. Pesante è anche il clima in cui il ministero degli Esteri sta operando. Non tanto quello laggiù, bensì il nostro qui in casa. Stampa e opinione pubblica italiane infatti si sono alleate nell’effettuare una pressione nevrotica e morbosa nei confronti della diplomazia, non rendendosi conto dell’inutilità dell’operazione. Anzi, non è da escludere che gli indiani si siano impuntanti proprio in seguito all’osservazione di quanto male ci siamo mossi in termini di comunicazione e gestione mediatica della vicenda. È un fato di fatto: sono suscettibili. Va aggiunto poi il carico da dodici della politica. Quella nostrana. La linea del “tirate fuori i marò” era scontato che non potesse funzionare. «Schiaffo alla nostra diplomazia» e «decisione inaccettabile». Le dichiarazioni dei nostri parlamentari, a margine della decisione del giudice Gopakumar, seguono un fil rouge che fa pensare quanto sia superficiale l’analisi dei fatti. Anziché riflettere sull’armatore e sul comportamento del comandante della Lexie, ci si è lanciati all’assalto delle autorità indiane. Queste hanno preso atto della nostra aprioristica ragione e si sono adeguate.

Certo, il fermo per i due marò è inaccettabile. Lo ha ammesso anche il ministero degli esteri. Perché l’India dovrebbe comunque attenersi a un codice di comportamento diplomatico. Ma è la logica reazione di un Paese abitato da 1,2 miliardi di persone, che vivono in uno stato di quotidiana indigenza e che per questo sono abituate a ragionare di impulso anziché secondo parametri di tranquillo benessere occidentale. Plausibile immaginare una maggiore aplomb nelle stanze del potere di Delhi. Spinta dalla psicosi di essere vittima di un rigurgito post-colonialista, la magistratura del Kerala ha delimitato un territorio di competenza più vasto di quello che effettivamente è suo.

Bisogna rendersi conto che questa faccenda dà più fastidio agli indiani piuttosto che a noi. Nella più grande democrazia del mondo infatti i problemi con la magistratura, o più in generale di carattere giudiziario, non vengono né affrontati né scartati. Solo fatti da parte. A Kollam il giudice avrebbe con molto piacere messo il file di Latorre e Girone a un lato della sua scrivania, lasciando che venisse languidamente dimenticato, affondando nella polvere o sotto altri dossier. Così non è stato. Era naturale. L’Italia, e su questo non c’è dibattito, non avrebbe potuto lasciarsi trasportare dall’indolenza propria del subcontinente. Resta il fatto però che dobbiamo adeguarci alle regole indiane. Non tante alle leggi. Il che vuol dire imprevedibilità di tempi nella risoluzione del problema. È possibile pure che allo scadere di questo fermo, i due marò vengano rilasciati per una repentina decisione piovuta dall’alto. Ma questo potrebbe prevedere anche un preteso senso di riconoscenza. Come reagirebbe l’Italia se si sentisse dire dagli indiani: «Ci dovete un favore»?

La voce grossa che abbiamo fatto qui in patria non corrisponde alle sofisticate maniere di de Mistura. Questo agli indiani non è andato a genio. Le pretese di arrivare in casa loro e riprenderci i nostri ragazzi senza che nessuna perizia venisse effettuata e con la presunzione di chiudere la pratica a tempi di record non fanno parte del caotico modus operandi di Delhi. Forse non abbiamo mai chiesto questo. Eppure così siamo stati fraintesi. Due erano in pratica le strade percorribili dall’Italia. Quella di entrare a Kollam e buttare giù la porta della guesthouse dover erano tenuti i due marò fino a ieri, oppure lavorare pazientemente ai fianchi della magistratura locale. La prima opzione è fuori portata. Non siamo in un film infatti. Il Piano B, invece, avrebbe potuto funzionare. Ed era questa la linea presa da Terzi & Co. Ma si è scelta la terza via, cioè quella di inviare de Mistura con la sua elegante capacità di negoziazione, spalleggiato però da una vera e propria caciara. Non siamo stati coerenti. Il che ha fatto da fianco esposto alle decisioni del giudice di Kollam.

Quindi? Quindi adesso ci tocca immaginare Latorre e Girone infognati in un carcere indiano che non è passato alla storia in qualità di istituto penitenziario modello. La città di Trivandrum, oggi nota con il nuovo nome di Thiruvananthapuram, è un centro industriale importante, nonché base strategica per l’aviazione militare. Con i suoi 700mila abitanti occupa una posizione precipua nell’economia di tutta la parte meridionale della penisola. È inoltre famosa per l’assenza di baraccopoli. Ma questo non ci garantisce che l’ambiente carcerario riservato ai due marò sia migliore rispetto ad altri contesti indiani.

Pubblicato su liberal del 6 marzo 2012

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La televisione cinese è come quella italiana. Salvo la libertà e il numero di tette.
In Cina ci sono tre tipi di programmi molto seguiti. Uno è il format “premio televisivo”, che di solito ha gli ascolti più alti. Per esempio c’è il Lunar New Year Gala trasmesso la notte di capodanno, visto da circa un miliardo di persone. È una vera istituzione in Cina: misto di canzoni pop, danza contemporanea e sketch di famosi comici, ha preso il posto di tutti i riti familiari tradizionali. Tiene inchiodate al video milioni di famiglie delle campagne. È seguito fra l’altro anche dai leader politici. L’unica nota piccante sono le chiacchiere sulle cantanti pop che pare siano amanti dei membri più influenti del governo. Il resto del paese può sognarsele di notte.
Il secondo format in ordine di importanza è il talk show stile Oprah Winfrey, la più importante fonte di guadagno per le emittenti. Costa poco e fa ascolti mostruosi se il presentatore riesce a far piangere in diretta gli ospiti. Ce ne sono due: uno è basato sulle interviste a celebrità, l’altro è condotto da una donna molto magra, già definita la “Oprah cinese” Yang Lan.
La sua carriera televisiva nasce nel 1990, come conduttrice di Zheng Da, varietà pubblicato sulla rete nazionale cinese. Le sue interviste diventano celebri, ed è soprattutto grazie a queste che la sua carriera prende il volo in Yang Lan Horizon (oggi noto come Yang Lan One on One), programma di attualità che la conduttrice ha creato in collaborazione col marito Bruno Wu, ricco imprenditore e business man. Personaggi di fama internazionale si susseguono di puntata in puntata, tra cui spicca l’intervista ai politici e coniugi Bill e Hillary Clinton, al politico Henry Kinssinger e l’attrice Nicole Kidman. La scarsezza di informazioni con cui viene a contatto il pubblico cinese per via delle continue censure da parte del governo attuale ha reso il programma e le interviste di Yang un modo per colmare il vuoto di conoscenza, rendendo popolari temi di attualità e creando un vero ponte tra la Cina e il resto del mondo.
In tutto questo Yang Lan ha lanciato nuovi format e programmi televisivi rivolti al pubblico femminile, si è espansa sul web, ha comprato e venduto emittenti televisive, costruendo pezzo per pezzo il suo piccolo impero. Fino a diventare oggi non solo un volto, ma anche un simbolo della Cina e delle protagoniste femminili della sua grande espansione. L’unica differenza è che pesa più o meno quanto una gamba di Oprah.
Il terzo tipo è quello del reality show. Certo c’è anche in Cina. In questi programmi le partecipanti si vestono in un modo assolutamente non comune per una cinese, mostrando più del normale.
La censura cinese insomma è molto sensibile al seno di una donna. I cinesi non hanno mai visto le nudità delle televisioni italiane. Una legge degli Anni cinquanta infatti stabilisce il limite massimo di pelle nuda che una donna può esporre in televisione: otto centimetri. Non bastano nemmeno a mostrare il décolleté.
Negli ultimi anni i produttori hanno capito che il sesso vende, ma i loro ripetuti sforzi per portare un po’ di nudità sul piccolo schermo sono falliti. Alcuni sono anche finiti in galera.
Un altro esempio di censura cinese riguarda la sospensione del popolare programma televisivo Super Girl, modellato sulla trasmissione statunitense American Idol. Il programma, prodotto dalla televisione provinciale dell’Hunan, ha spesso presentato personaggi anticonformisti, giovani che parlano lo slang delle loro città e che usano un linguaggio che, nelle parole del censore, “offendono esponenti delle vecchie generazioni”. Super Girl era già incorso nelle ire della Sarft, l’organismo addetto al controllo della tv, della radio e del cinema, nel 2007, quando era stato imposto ai produttori di non eccedere col programma la lunghezza di 90 minuti. In una nota comparsa sul suo sito web,la Sarft accusa i produttori di non aver rispettato il limite, oltrepassando regolarmente i tempi a discapito delle altre trasmissioni.
Dedicato ai giovani, Super Girl é stato acquistato da altre televisioni regionali e ha centinaia di milioni di spettatori in tutta la Cina.
E l’intervento sarà ancora più vasto. Si tratterà di una rivoluzione nei palinsesti: i programmi di intrattenimento saranno sottoposti a una rigida censura e come se non bastasse, nelle scalette da gennaio 2012, saranno inseriti non più di due programmi di intrattenimento al giorno. La ciliegina sulla torta è data dall’obbligo per le reti televisive di trasmettere nella fascia oraria 18-24 almeno due ore di telegiornale (rigorosamente controllato dal Partito) e almeno un programma che abbia l’esplicito compito di veicolare i valori della “tradizione comunista”.
Una riforma che sta suscitando malumori non solo tra i cinesi qualunque, ma anche tra i cinesi invischiati nella politica. Scrive infatti Agi China 24: Allarmi contro i pericoli di questa campagna sarebbero stati lanciati anche dai “taizi”, i discendenti dell’aristocrazia del Partito Comunista Cinese, che secondo voci non confermate si sono riuniti all’ inizio del mese per celebrare il trentacinquesimo anniversario della fine della Rivoluzione Culturale.
Vietate anche le pubblicità a sfondo sessuale o che abbiano qualche riferimento esplicito sulle televisioni e radio cinesi. Lo ha deciso la Sarft emettendo una circolare con la quale si chiede maggiore autocontrollo negli spot pubblicitari. Ma il nuovo regolamento tende a restringere sempre di più qualsiasi forma pubblicitaria nel Paese.
Secondo la circolare, nessuna pubblicità potrà essere mandata in onda tra i titoli, nel corpo o nel trailer di drammi televisivi e il divieto di recente si è esteso a tal punto che durante i programmi di 45 minuti non si potranno mandare in onda annunci.
Le emittenti dovranno esaminare tutti gli spot che hanno a che fare con farmaci, macchinari medici, attrezzi e integratori per la salute soprattutto quelli che appaiono nelle televendite. Niente promozioni anche durante le notizie e neanche camuffate da notizie, così come divieto per i giornalisti a fare pubblicità a prodotti.
Anche in rete ci sono forti censure Google, Facebook e Twitter: i web 2.0 non sono ancora una realtà in Cina, a differenza di altri Paesi.
Per sostituirli, il governo ha deciso di creare alcuni social media su misura del Partito. Ecco quindi che Facebook diventa Ren Ren, Twitter diventa Sina Weibo. Lo scopo? Concedere al popolo il vezzo della modernità e allo stesso tempo evitare grattacapi al regime.
Infatti bisogna ricordare che in Cina un miliardo e mezzo di persone sono private dei diritti politici, della libertà di espressione e della libertà religiosa.
In Cina finisce in galera chi naviga in siti internet non autorizzati e chi critica la corruzione dilagante.
Ma qualcosa è andato storto. O per meglio dire storto dal punto di vista della classe dirigente cinese e per il verso giusto per il futuro democratico del paese. I social network dagli occhi a mandorla, infatti, sono diventate piattaforme di libera discussione. La gente ha squarciato il velo della censura e conquistato l’orizzonte del web 2.0. Ovviamente questo non vale per tutta la comunità cinese di internauti, ma per una buona parte sì. In particolare quella che fa riferimenti al sito di microblogging, Sina Weibo.
Il governo cinese, dunque, ha buoni motivi per intervenire ancora più massicciamente nel mondo dei media, se vuole mantenere intatto il suo regime. Tuttavia, c’è un’altra causa in ballo: la Cina vuole vendere all’estero non solo grazie al basso costo ma anche facendo leva sul brand, come accade per le economie occidentali. Per farlo, deve rendersi appetibile e, di conseguenza, deve proporre un’immagine granitica e sicura di sé. E’ ovvio che per mostrare forza all’esterno, bisogna detenerla all’interno. Ecco il senso dei nuovi provvedimenti per limitare televisioni e social media.
Si parla spesso di questo Paese nei temi d’attualità: economia, mercato globale, superpotenza, concorrenza, sono tutti termini che si associano quotidianamente al grande impero asiatico. Paese che ha fatto passi da gigante in ogni settore produttivo, che ha avuto uno sviluppo economico dalla rapidità sconvolgente, che è, oggigiorno, la seconda superpotenza mondiale, destinata a diventare la prima surclassando gli Stati Uniti.
Eppure ancora così lontano da una piena democrazia.

 

 

 

 

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Articolo pubblicato su www.giornalettismo.com LEGGI

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Reportage dal Kashmir, pubblicato su Rivista Studio. Leggi

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