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Archive for the ‘RECENSIONI’ Category

Finalmente un reportage! Ieri all’Ostello Bello di Milano, Antonella Appiano ha presentato il suo libro “Clandestina a Damasco”, Castelvecchi editore. L’iniziativa portava la firma di Associazione Capramagra, pimpante Onlus attiva nella cooperazione internazionale.

Finalmente un reportage! Dicevamo. Perché il libro della Appiano è la testimonianza diretta di quattro messi passati tra i vicoli di Damasco e non solo, a seguire in prima persona la rivoluzione siriana. Quattro mesi di clandestinità, travestimenti, ma soprattutto di fatti visti con i propri occhi e subito raccontati. Poche storie. Quando si è bersaglio di ignoti cecchini che sparano dai tetti, oppure pedinati dalla Mukhabarat, l’analisi va nel dimenticatoio. E il libro nasce da sé. Ovvero sulla base dei fatti. Il giornalista ha poco da perdere tempo con riflessioni sullo spirito del mondo. In Siria c’è una guerra civile e bisogna raccontarla, punto.La Appianofa questo. Fa la giornalista. Vede, ascolta, scrive.

“Clandestina a Damasco” è semplice. Neanche 150 pagine, senza una nota o una bibliografia – sapete? Quelle che già alle tesi di laurea fanno mettere perché così si ingrassa inutilmente il volume. A che scopo ridondare però?La Appianoriporta quel che vede. Riporta, reporter: c’è assonanza, chissà come mai…

Per chi vuol sapere quel che c’è scritto nel libro, il consiglio è presto detto: vada in libreria, dodici euro e cinquanta e buona lettura. Fine della recensione.
Il post di oggi è invece sul merito. Sulla qualità del prodotto fornito da noi giornalisti. O meglio, dalle testate. Visti i fatti siriani, il lavoro di Antonella Appiano dovrebbe restare sulle scrivanie dei direttori dei giornali più letti in Italia. Come pure sul comodino di una qualsiasi persona minimamente sensibile a quel che accade appena lontano dai nostri mari. Una sorta di bigino sull’attualità. Suo malgrado, “Clandestina a Damasco” non riceve l’attenzione che merita. Non che sia un libro clandestino – giochiamo sulle parole – bensì è dagli alcuni addetti ai lavori. E nemmeno tutti. Perché l’idea di camuffarsi da ricercatrice e restare a Damasco con qualche pericolola Appiano la ha avuta, ma molti colleghi l’hanno snobbata. «Sai quanti mi hanno detto che ho inventato l’acqua calda?» commenta lei stessa. È vero, mascherarsi da chissachi, quando si è invece lì per recuperare notizie, lo saprebbero fare un tutti. Ma chi davvero si è messo in discussione? Da notare pure che l’autrice non è propriamente quella che passa inosservata tra i suq del Medioriente.

Snobismo. I giornali italiani snobbano le buone idee. Non tanto perché il settore è in crisi, non ci sono lettori, l’argomento non interessa, la pubblicità è poca, eccetera. Ma solo perché il buon lavoro vien fuori da chi ha coraggio. Il nostro mondo sta cambiando. Un pc al posto della carta, una tastiera anziché la penna. Un’evoluzione bellissima. Però, soffermandoci su questa immagine, ci si dimentica che il vero binomio notevole del giornalista è: cervello e scarpe comode. Perché il lettore vuole sapere quello che succede dietro l’angolo. Quindi bisogna scendere in strada. Dobbiamo raccontare. Nient’altro che questo. Le analisi le si possono lasciare ai lettini di psichiatria. Un giornale si scrive con le notizie. Quindi on the road. Magari anche clandestinamente.

 

Postilla personale: al dibattito il sottoscritto ha fatto da gregario. Si è divertito e ringrazia Capramagra. Dicono: «Piaggeria!» No gentilezza.

 

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 Ian Johnson, “Una moschea a Monaco”, ed. Cooper. Per saperne di più Leggi: 1, 2. O ancora meglio vai in libreria!

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di Paola Ferrario

Il termine “Dervish” significa “colui che apre le porte” e sta ad indicare, genericamente, chiunque ricerchi l’illuminazione attraverso l’esperienza della totale povertà fisica e semplicità spirituale, mentre coloro che normalmente vengono chiamati “Dervisci” dovrebbero essere denominati “Mevlevi”, dal nome del loro fondatore Mevlana Celaleddin-i Rumi, uno dei maggiori maestri sufi di ogni tempo.
Nato il 30 settembre 1207, dell’era cristiana, nella odierna Balkh, nella Transoxiana (parte dell’Asia centrale), da una famiglia di dotti teologi. Viaggiò in molti Paesi musulmani e dopo aver eseguito il pellegrinaggio obbligatorio alla Mecca, si stabilì, infine, a Konya, cuore dell’Anatolia e terra di mistici, allora parte dell’Impero di Selgiuchidi, dove nel 1231, successe al padre come professore di scienze religiose all’età di soli ventiquattro anni.
Nel 1244 Rumi incontrò il Derviscio errante Shams-i Tabriz,  un vagabondo che aveva rinunciato a tutto per seguire il sentiero dei sufi. Ne divenne subito il suo maestro spirituale capendo di essere complementare con lui, l’uno lo specchio dell’altro.
Dopo quell’incontro, Rumi cambiò completamente la propria visione del mondo: da grande teologo e sapiente divenne poeta, da predicatore divenne cuore che canta.
Dopo aver insegnato i suoi principi basati sull’amore e la fratellanza universale, per oltre quarant’anni, Rumi morì il 17 dicembre 1273 e fu sepolto in uno splendido santuario che rimase il maggior centro liturgico della corrente da lui fondata.
Secondo il suo pensiero, il centro della Fede è il precetto “Sii un amante, un amante. Scegli l’amore per essere uno degli scelti”, che sta a significare la necessità del singolo di amare Dio e gli uomini a livello tale da offrire completamente se stessi all’umanità e da diventare inesistenti in Dio, da sciogliersi in Lui cosicché egli muova ogni minima particella del fedele. Solo in questo modo quest’ultimo avrà l’intero universo al suo comando, perché ogni cosa sarà già dentro di lui, in un processo possibile per tutti, a prescindere da religione, razza o cultura.
Alla morte del maestro, i seguaci e, in particolare, suo figlio Sultan Veled Çelebi fondarono un Ordine sufi basato sulla sua predicazione a Konya, da dove si diffuse gradualmente in tutto l’Impero Ottomano e nelle comunità turche di tutto il mondo.
Già qualche anno dopo, quello Mevlevi era un Ordine ben radicato nel panorama sufi ottomano, con molti dei membri che servivano in varie posizioni ufficiali del Califfato, una diffusione notevole nel Balcani, in Siria e in Egitto e una produzione artistica, letteraria e musicale, tra più alte della storia turca.
Proprio la musica riveste ancora un ruolo fondamentale nella liturgia Mevlevi, come appare evidente soprattutto nella più conosciuta delle funzioni “Dervisce”, la cosiddetta “Cerimonia Turbinante”, in cui ogni elemento, ogni gesto è simbolo di qualcosa di spiritualmente superiore e merita di essere analizzato.
La loro storia è narrata ed analizzata in questo libro con rigore, senza tralasciare le molte suggestioni.
Alberto Fabio Ambrosio, DERVISCI, Roma, Carrocci editore, 2011, pp 190, euro 16,00.

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East (Europe and Asia STrategies) si occupa di economia, politica e cultura e ha come focus principale l’Europa e i rapporti tra questa e l’estremo oriente, India e Cina in particolare. Il nuovo numero della rivista è in edicola con un mio articolo. Titolo: “La questione afghana riguarda anche Delhi”.

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Avatar di per sé è il classico filmone del sabato sera. E come tale va preso, con i suoi effetti speciali luccicosi e tenendo ben a mente che dietro c’è la firma di James Cameron. Smessi gli occhiali 3D, la prima certezza che si ha è che il regista & Co. si siano divertiti a girare la pellicola più di qualunque spettatore a seguirla. La trama è sostanzialmente banale. I buoni vincono sui cattivi, ma dopo tante difficoltà e con un fortunoso intervento di Madre Natura, o “Fattore C” come lo si vuol chiamare. Osservandolo bene Avatar è scandito da citazioni azzeccate e piazzate come spilli nei momenti giusti. C’è Rambo, ci sono i Western di ultima generazione (Balla coi Lupi), più una lunga sequenza di rimandi filosofici e narrativi: Rousseau, Schopenhauer, in parte Tolkien and so on. È il discorso positivistico e sublime che accomuna laici e osservanti per cui l’Uomo o il suo alter ego (l’Avatar appunto) sono costretti a percorrere un lungo e faticoso cammino per guadagnarsi la fiducia degli altri, l’amore di chi si ama e perfino la salvezza. Sulla Terra oppure altrove. Nel caso di Avatar, su Pandora. Si tratta di un riscatto esistenziale ed etico al quale, bene o male, si è soggetti nella quotidianità terrena e di cui si è più o meno consapevoli. A questo si aggiunge un misticismo da Terzo millennio, in stile un po’ new age, psichedelico e con derive di sciamanesimo. È un bel trip mentale insomma! I dubbi restano sulla morale però. Prima di tutto perché Cameron ci fa capire che siamo destinati a compromettere a tal punto le risorse del nostro pianeta da andare a saccheggiare quelle degli altri. E le reazioni di quest’ultimi, secondo il regista, sono scontatamente devastanti per l’Uomo. Per Cameron, insomma, l’umanità ha preso una china più o meno lunga che lo porterà all’autodistruzione. Alla faccia della salvezza quindi! Ma torniamo all’Uomo e al suo Avatar. Resta in sospeso perché il primo scelga di non restare più tale e di diventare Na’Vi, trasformando l’Avatar in reale. Perché il mondo dei Na’Vi e la loro Pandora è migliore della nostra Terra “decotta”? Perché oltre il Velo di Maya c’è una libertà e una spontaneità collettiva che qui non abbiamo? Così facendo, si rischia di travisare Pandora con Útopia. La prima è un mondo immaginario ma realizzabile. La seconda resta un non-luogo del tutto virtuale, che non c’è e quindi dove noi non possiamo andare per ritrovare la pace. E quindi di non essere arrivati a capo si nulla.

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