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Archive for the ‘Globalizzazione’ Category

di Antonio Picasso

La rivolta siriana prosegue, silenziosamente e in modo sempre più complesso. Non ci si poteva aspettare altrimenti dal regno degli Assad, così com’è cadenzato da intrighi e lati oscuri. Ieri a Homs, si sono tenuti i funerali dei 19 morti accertati della strage di domenica. Il corteo si è trasformato subito in un nuovo momento di protesta contro il regime. Sono emerse altre violenze e con esse altri morti. La giornata si è chiusa con un bilancio provvisorio di 15 nuove vittime. Alcune fonti parlando di 25 caduti. A Talbiseh, intanto, un gruppo di agenti ha dovuto soccombere di fronte alla rabbia della folla. Tra i poliziotti attaccati, uno è rimasto senza vita sul terreno. È la prima volta che si segnala la perdita di un uomo delle forze di sicurezza. A un mese ormai dal sollevamento della piazza siriana, l’episodio può essere visto come un primo sintomo di debolezza del governo. Del resto l’opinione pubblica non demorde. Nel corso degli ultimi tre giorni, oltre a Homs, anche Damasco è tornata a essere un fronte di protesta. Nel caso della capitale siriana, sono le donne a gestire la rivolta. Almeno è così che appare nelle immagini postate su blog e youtube. Il messaggio dei dimostranti è sempre più ermetico: “Dio, Siria e libertà!” questo è lo slogan che risuona nelle strade. Se fino a poche settimane fa, l’opposizione avrebbe concesso al presidente Assad il beneficio di realizzare le riforme in tempi immediati – nella fattispecie pluralismo politico e abolizione dello stato di emergenza – adesso anche queste stesse iniziative rappresenterebbero inutili placebi. Di fronte ai tentennamenti del rais, l’opposizione risulta esasperata. «La Siria non merita questo governo», ci spiega al telefono un dissidente che ha pagato il suo attivismo con il carcere. «Noi vogliamo una seconda indipendenza». Nessun compromesso con il regime quindi. Dal momento in cui a Dara’a si sono manifestate le prime avvisaglie di protesta, il regime è entrato a gamba tesa, dando ordine alle forze speciali di non avere pietà contro i rivoltosi. Secondo questi ultimi, è Maher el-Assad, fratello del rais, il responsabile degli almeno 200 morti, in queste quattro settimane di rivolta. Proprio Maher è ben visibile in un filmato clandestino mentre assiste imperturbabile alla conta dei morti a Dara’a.
La complessità dello scenario siriano è dovuta però alle notizie che giungono da oltreconfine. Nel fine settimana, ha sollevato polemiche la pubblicazione, da parte del Washington post, dei cablogrammi di Wikileaks in merito ai supposti finanziamenti del governo Usa all’opposizione siriana. Si tratterebbe di fondi neri del valore di 6 milioni di dollari, stanziati negli ultimi cinque anni – sicché ancora durante l’Amministrazione Bush – a sostegno degli avversari di Assad in esilio. L’iniziativa avrebbe permesso il lancio del canale satellitare Badara tv, divenuto estremamente attiva in questi ultimi giorni. Del resto l’impegno dei media verso Damasco è ormai incalzante. Oggi a Roma, si conclude il Festival cinematografico “Cinemondo, uno sguardo al Medio Oriente”, concentrato quasi tutto sulla questione siriana. Merita una segnalazione ulteriore la figura di Ribal el-Assad, cugino del presidente, giovane businessman in esilio a Londra, ma soprattutto fondatore dell’“Organization for democracy and freedom in Syria” e dell’“Arab news network”, canale satellitare che dalla capitale britannica. Nato in Siria 35 anni fa, ma cresciuto all’estero, Ribal fa parte della dissidenza di seconda generazione, contraria al regime, ma appartenente alla stessa famiglia presidenziale. La sua opposizione ha un peso specifico anomalo. Da un lato, può apparire come il frutto della visione di chi vive da troppo tempo lontano dal suo Paese. Dall’altra, proprio perché membro del clan, Ribal el-Assad potrebbe disporre di quelle informazioni sottobanco che gli permettono di attaccare il rais sul suo fianco debole. In tutti i casi, bisogna capire quale sia il legame tra gli Usa, in qualità di finanziatori, e le diverse anime dell’opposizione. Non è chiaro infatti se di quei 6 milioni di fondi ne stiano beneficiando anche i rivoltosi di Damasco, oppure solo i tycoon di Londra.

Pubblicato su Il Riformista del 19 aprile 2011

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di Marco Lombardi

La questione Nord Africana ingarbuglia sempre di più la faccenda degli immigrati verso l’Italia. Una faccenda che dobbiamo assolutamente controllare ma… la molteplicità di aspetti che la contraddistinguono rende difficile una risposta adeguata se non la si spoglia delle sue “attitudini” politiche” per riposizionarla nelle necessità di governo:
Immigrati clandestini o rifugiati: non è il punto di partenza dell’imbarco che ci permette di deciderlo (come sembra dalle dichiarazioni di questa sera, domenica 27/3) ma sempre più è necessaria l’identificazione delle persone per potere discernere;
La Francia respinge gli immigrati: senza una concentrazione europea la questione non può essere affrontata in modo efficace. Su questa emergenza misuriamo l’Europa. Se essa manca, oggi, è del tutto inutile che poi pretenda di esserci, dopo,…con qualche multa sull’ambiente!
L’identificazione di chi sbarca è fondamentale: conosciamo quali sono i percorsi di immigrazione clandestina e, di massima, le caratteristiche del “serbatoio” libico fino a poco tempo fa controllato da Gheddafi. Identificare chi arriva in Italia ci permette di fare delle ipotesi sui percorsi e, pertanto, di avanzare ipotesi di intervento “delocalizzato”;
Pro-azione: tra poco non sarà sufficiente gestire l’impatto nelle isole italiane, dovremo trovare il modo di anticiparlo o attraverso nuovi accordi con i governi emergenti nella Nuova Africa del Nord o attraverso interventi diretti sul posto;
Sicurezza: nessun migrante è interessato a restare dove viene portato…i tentativi di fuga saranno costanti e continui. La questione sicurezza non è dunque immediatamente centrale là dove sono dislocati – dopo le isole – gli immigrati ma emergerà 1) come risposta al controllo per non lasciarli scappare 2) se si costituiranno serbatoi di disperati là dove verranno fermati su rispolverati confini nazionali;
Soldi e rimpatrio: nel passato è sempre stato il meccanismo di re-fuelling dell’immigrazione clandestina, troppo rischioso e poco efficace.

Pubblicato su www.itstime.it

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di Antonio Picasso

Le dinamiche politiche della crisi libica si spostano in Estremo oriente. Ieri, il summit sino-francese di Pechino si è concentrato quasi unicamente sul futuro del Paese nordafricano. Il premier cinese, Hu Jintao, ha accolto il presidente Nicolas Sarkozy con lo stesso atteggiamento di rigidità assunto dai suoi diplomatici fin dall’inizio dei raid. La Cina ha ribadito che Odissey Dawn, così come si sta sviluppando, è andata oltre le direttive della risoluzione 1973 dell’Onu. Ha sottolineato che la no fly zone era stata imposta per proteggere i civili e non per agevolare gli attacchi della Nato. Insomma, Pechino, di fronte al più agguerrito degli attuali nemici di Gheddafi, non si è spostata dalle sue posizioni iniziali. Diverso è il comportamento della controparte. Il semplice fatto che il summit non sia andato a monte lascia pensare che Sarko sia disponibile a ridimensionare la sua aggressività. Parigi non ha rilasciato dichiarazioni di qualsiasi sorta. Forse l’Eliseo sta valutando come ricucire lo strappo coi cinesi. A costo anche di ridurre i raid. Nell’incontro a due, deve aver pesato l’elemento petrolio. Total nutre interessi sia in Nord Africa sia in Cina. È probabile che il presidente francese stia vivendo ore di profonda incertezza, nel capire quali contratti della major transalpina siano più importanti, se quelli di lungo periodo in Cina, oppure se le concessioni libiche da rivedere con il futuro governo. Va ricordato, peraltro, che anche la partecipata di Pechino, la Cnpc, è presente nel Paese nordafricano. Il che complica ulteriormente i rapporti fra le due potenze.
Come contraltare all’eventuale apertura di Parigi, adesso è Londra a mostrare nuovamente i muscoli. Sempre ieri, il premier britannico, David Cameron, ha palesato l’ipotesi di armare i ribelli. Anche in questo caso, si tratterebbe di un’iniziativa non contemplata dal documento delle Nazioni Unite. Inoltre, rappresenterebbe solo una conferma di quello che, pare, stia già accadendo. Proprio i Sas – le forze speciali di Sua Maestà – starebbero combattendo a fianco degli insorti ormai da un mese.
Silenzio invece sull’altra sponda dell’Atlantico. Barack Obama, dopo l’ultimo discorso all’elettorato, rassicurante sul fatto che quello in Libia non sarebbe un conflitto, crede di aver compiuto il proprio dovere. In nome della democrazia e della trasparenza.
In realtà, l’intera attività diplomatica spalmata nelle diverse cancellerie delle superpotenze mondiali perde completamente di significato se non viene risolto il “problema Gheddafi”. Vale a dire se non si stabilisce cosa farne del rais. Stabilita l’impossibilità di eliminarlo mediante operazione chirurgica, come avrebbero voluto molti operativi sul fronte libico, restano due soluzioni. O che Gheddafi cada in battaglia. Ma così si ritornerebbe alla carta appena esclusa. Con il rischio, inoltre, di assurgere a martire. Non resta che l’esilio. Il problema è dove un ex rais libico, al potere da 42 anni e con solidi legami con tutti i regimi più dispotici del mondo, potrebbe essere “parcheggiato” senza che torni a dare fastidio?
Per come si è comportato finora, è chiaro che Gheddafi non sia Mubarak, il quale, una volta isolato dai suoi stesi uomini di fiducia, è riuscito a garantirsi un buen retiro a Sharm el-Sheihk. Una volta messo sotto scacco sul campo di battaglia – chissà quando? – il colonnello non potrà restare in Libia. L’idea che venga catturato e appaia di fronte a tribunale internazionale è comunque rischiosa. Potrebbe essere trattato come un prigioniero di guerra. Difficile farlo figurare come un genocida alla stregua di Milosevic. E se fosse lui stesso a fuggire?
È l’ipotesi che sta prendendo piede. Certo, la fuga sarebbe implicitamente agevolata dai ribelli e dalla Nato. Entrambi potrebbero far finta di non aver visto nulla. A quel punto, Gheddafi potrebbe riparare presso governi amici in Africa, oppure in America latina. In questi giorni è stata avanzata l’ipotesi del Ciad. Francamente questa è la meno plausibile. Per tre motivi: è dalle piste di questo Paese che partono molti dei Mirage francesi che stanno bombardando gli uomini del colonnello. Gheddafi è un leader rancoroso e non dimenticherà lo sgarbo di Ndjamena. Il Ciad, inoltre, è da anni in aperto contenzioso con il vicino Sudan per la questione Darfur. Gheddafi, assurgendo a paciere in seno all’Unione africana, ha più volte preso posizione in favore di Karthoum. Infine, il Paese vanta la più estesa riserva di uranio al mondo. Questo significa la presenza di investitori stranieri che giungono da tutto il mondo – soprattutto Cina e, ancora una volta, Francia – accompagnati dai loro contractor. Non si voglia che Gheddafi, una volta scappato dalla Libia, possa incontrare un commando di dubbia provenienza! Del resto, nemmeno gli alleati continentali del ex rais, Omar al-Bashir in Sudan e Robert Mugabe dello Zimbabwe, possono garantirgli un esilio sereno all’ombra della sua tenda beduina. L’intera Africa, soprattutto alla luce delle rivolte al nord e in Medioriente,  è sinonimo di instabilità e di improvvise fiammate rivoluzionarie. Al giorno d’oggi, non c’è dittatura che possa certificare la propria sopravvivenza su un lungo periodo. È plausibile che questo Gheddafi l’abbia intuito.
Al contrario, il Venezuela di Hugo Chavez appare più stabile. Fra i due leader l’amicizia personale non è incrinata da precedenti negativi. Inoltre, il presidente venezuelano ha più volte offerto il proprio aiuto, sul piano diplomatico, in queste settimane di crisi. Caracas, quindi, potrebbe far comodo a Gheddafi. L’ex rais alla ricerca di una sede straniera da dove continuare la sua lotta personale. Magari non più in termini militari. Per quanto non è detto che si ritorni ad avere un Gheddafi che sponsorizza attività terroristiche in Occidente. L’importante però per il colonnello è salvare se stesso e garantire un futuro al suo clan, attraverso quelle risorse economiche non ancora congelate. Proprio Chavez, nell’invettiva anti-occidentale di martedì, parlava di un «furto di 200 miliardi di dollari, perpetrato da questo nuovo colonialismo a spese della Libia». Da notare che, solo cinque mesi fa, i due regimi avevano creato un fondo di investimento comune, della somma di 1 miliardo di dollari. Per Gheddafi, in proporzione a quanto gli è stato confiscato, questo è nulla. Si tratta comunque di un capitale iniziale. Il contenitore di questi progetti c’è già e si chiama “Fondazione afro-latinoamericana di sostegno per Gheddafi”. Mancano solo le idee. Arriveranno da Tripoli?

Pubblicato su liberal del 31 marzo 2011

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Le donne non potranno votare alle elezioni amministrative in programma in Arabia Saudita il prossimo 23 aprile. Lo ha annunciato oggi il Presidente della commissione elettorale, Abdel Rahman al-Dahmash. Nelle scorse settimane, il quotidiano algerino el-Watan aveva riferito della presunta disponibilità della famiglia reale a concedere il voto alle donne come ulteriore misura per scongiurare il contagio delle proteste popolari che stanno infiammando il mondo arabo. “Non siamo ancora pronti per una partecipazione delle donne alle elezioni amministrative – ha detto oggi Dahmash in conferenza stampa – ma abbiamo creato un comitato per valutare la questione, e promettiamo che le donne parteciperanno alle prossime elezioni”. Tra quattro anni. La data delle elezioni è stata fissata per il prossimo 23 aprile, dopo un rinvio di due anni. Nel maggio 2009, il governo saudita aveva prolungato di due anni il mandato dei consigli municipali, rinviando così le elezioni che avrebbero dovuto tenersi lo stesso anno. Le prime elezioni amministrative nella storia del regno si sono tenute nel 2005, per eleggere metà dei 178 consiglieri municipali; l’altra metà è stata infatti nominata dal governo. Anche allora, le donne sono state escluse dallo scrutinio. Le elezioni si terranno nel mezzo di un dibattito lanciato sul web da attivisti e intellettuali, che chiedono riforme politiche e sociali, fra cui il voto alle donne

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I sottosegretari agli Interni di India e Pakistan hanno avviato oggi a New Delhi un incontro di due giorni destinato a rompere il ghiaccio nelle relazioni dei due Paesi tradizionalmente rivali. Secondo Times Now Tv, il sottosegretario indiano, Gopal K. Pillai, e il suo omologo, Chaudhary Qamar Zaman, esamineranno numerosi temi relativi alla sicurezza. In particolare cercheranno di rilanciare le indagini sull’attentato di Mumbay del 26 novembre 2008. L’attesa è grande anche perche’ il 30 marzo, grazie alla ‘diplomazia del cricket’, i primi ministri dei due Paesi, Manmohan Singh e Yusouf Raza Gilani, siederanno l’uno vicino all’altro a Mohali (Stato settentrionale indiano del Punjab) per assistere alla semifinale del Campionato mondiale di cricket fra India e Pakistan. All’invito rivolto da Singh, Gilani ha risposto positivamente e il presidente pachistano Asif Ali Zardari ha anche graziato un detenuto indiano condannato all’ergastolo 27 anni fa. Intanto le citta’ di Mohali, Panchkula, e Chandigarh, capoluogo del Punjab, stanno trasformandosi in fortezze militari, con un dispiegamento di ingenti forze di polizia e dell’esercito in vista dello svolgimento del match. Nella giornata in cui si svolgerà l’incontro, si è infine appreso, i cieli di Mohali saranno dichiarati ‘no fly zone’.

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