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Archive for the ‘Russia’ Category

La dottrina della nuova Nato partirà dall’Afghanistan. Prima però farà scalo in Europa. A margine del vertice dell’Alleanza atlantica di ieri, ospitato a Lisbona, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha detto: «L’incontro di oggi e quello di domani Ue-Usa restano fortemente legati. È da questi che dovrà ripartire l’Alleanza». Il leader della Casa Bianca ha voluto sottolineare la necessità che la Nato si trasformi da un consesso multipolare, composto da Washington e dai singoli governi degli Stati membri, a uno essenzialmente bipolare. Gli Stati Uniti preferisco confrontarsi solo con Bruxelles, in rappresentanza dell’Ue, piuttosto che con le singole cancellerie europee. È una questione di snellimento delle relazioni diplomatiche e militari. La proposta appare positiva. Per la Nato si potrebbe aprire una strada di semplicità politica e operativa. L’Unione europea stessa ne trarrebbe giovamento, sarebbe chiamata per forza di cose a definire quella politica estera e di difesa comunitarie che le mancano. Bisogna chiedersi, d’altra parte, quanto attori di un certo peso e che reclamano sempre un ruolo da protagonisti accetterebbero questa novità. Le ambizioni di Francia, Germania e Gran Bretagna – ma possiamo aggiungervi anche Italia e Spagna – spesso collidono con una politica estera Ue, che ridimensionerebbe la loro singola sovranità sul piano internazionale. Per tutto questo, bisogna aspettare in primis il vertice che si terrà oggi. Successivamente, si dovrà capire la direzione della Casa Bianca che, dopo la sconfitta delle mid term election, si avvia a preparare la campagna elettorale del 2012. Logico pensare che anche questo inciderà sull’atteggiamento di Washington.
Per quanto riguarda l’Afghanistan, il capitolo si potrebbe concludere con un “nulla da segnalare”. Se non fosse che le decisioni adottate ieri, già conosciute dall’opinione pubblica transatlantica, sono state formalizzate. E qui risiede l’importanza del vertice di Lisbona. In termini generali, è stata ufficializzata la trasformazione della sua identità. Secondo la nuova dottrina strategica, l’Alleanza passa dall’essere un soggetto statico a uno dinamico. Fondata all’inizio della guerra fredda come blocco monolitico di protezione dell’Occidente di fronte ai Paesi del Patto di Varsavia, oggi la Nato dimostra la propria disponibilità a uscire dai confini macroregionali. È intervenuta nei Balcani e soprattutto è presente in Afghanistan. Il suo raggio d’azione è diventato globale. Il suo punto di riferimento non è più interno. Le decisioni in precedenza venivano esclusivamente prese dal collegio dei Paesi membri, anch’esso basato a Bruxelles. Oggi l’Alleanza si confronta direttamente con le Nazioni Unite e organizza missioni di pace per conto di queste ultime. Resta aperto il capitolo sull’allargamento. L’intenzione di coinvolgere altri Paesi, in particolare ex satelliti dell’Unione sovietica, non è stata scartata. La realizzazione di quest’altro progetto sarebbe un’ulteriore dimostrazione che la Nato miri a essere un interlocutore a 360 gradi sullo scacchiere mondiale. Tuttavia, il silenzio sulla questione può far pensare che non si sia voluto infastidire Mosca, con cui il dialogo resta prioritario.
Nello specifico dell’Afghanistan, la Nato ha voluto ascoltare sia le pressioni di cominciare a scrivere le ultime pagine dell’esperienza afgana, sia quelle del presidente Karzai di cedergli progressivamente le responsabilità della sicurezza nazionale già dal prossimo anno e per concludersi nel 2014. Non c’è ombra di dubbio che si tratti di una scelta azzardata. Dopo quasi nove anni di guerra, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato e le istituzioni di Kabul dispongono di un consenso che non era mai stato così basso da dopo la caduta dei talebani. Ritirarsi ora può vorrebbe dire abbandonare il Paese alla sua guerra, creando una fotocopia della Somalia o dell’Iraq nel cuore dell’Asia. Strategicamente il pericolo non giunge solo dai talebani, ma anche dalle opportunità che si offrono alle potenze regionali – dall’Iran alla Cina, dalla Russia all’India, senza trascurare il Pakistan – di fare del Paese una loro preda. Se così fosse, il fallimento non sarebbe da attribuire solo alla Nato e all’Ue, ma anche all’Onu. È di quest’ultima la paternità della missione Isaf con la Risolizione n.1386 del Consiglio di Sicurezza, datata 20 dicembre 2001. Del resto, bisogna ammettere che, se in nove anni il problema non è stato risolto, è giusto che la Nato riveda la propria tattica sul campo e cerchi di capire il motivo di una missione di non riuscita.

Pubblicato su liberal del 20 novembre 2010

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La strategia russa di ricorrere al gas naturale come suostrumento di potenza è ormai confermata. Nemmeno questa querelle energetica aperta dal Cremlino contro la Bielorussia si minimizzare a un mancato accordo sul prezzo delle bollette. Al contrario si tratta di una manovra politica studiata a tavolino ormai più di cinque anni fa.
Ieri il Presidente russo, Dimitri Medvedev, ha accettato la proposta della Gazprom di tagliare le forniture di gas metano alla vicina Bielorussia per un iniziale quantitativo del 15%. Non è escluso però che, nelle prossime settimane, i rubinetti vengano chiusi per tre quarti della loro portata attuale. Di fronte a questa minaccia il Governo di Minsk ha replicato la sua intenzione di iniziare a saldare il debito. L’obiettivo di Mosca è, così facendo, cominciare ad assorbire il credito che vanta con la Repubblica a lei satellite. Secondo i calcoli di Gazprom si arriva a 200 milioni di dollari circa. D’altra parte, Minsk è in piena recessione economica e il regime autoritario di Alexandr Lukashenko non permette al Paese un rilancio produttivo. È facile quindi per la Russia prendere questo piccolo alleato per la gola, ribadendo la sua influenza nei confronti di tutte le ex Repubbliche sovietiche che, dopo il 1991, si sono dichiarate indipendenti.
Un’indipendenza sulla carta, però, come si è visto più volte con l’Ucraina, nel Caucaso e soprattutto in Asia centrale. La debolezza politica ed economica espone questi giovani Paesi agli appetiti dell’Orso del Cremlino, il quale ne approfitta e ribadisce all’Occidente che la “Nuova Russia” dev’essere tutt’altro che sottovalutata. C’è un metodo in questo percorso, nella cui ripetitività stagionale l’Unione europea si fa prendere puntualmente contropiede. Un circolo vizioso dal quale Bruxelles non riesce a svincolarsi.
Per Gazprom giugno è il mese di bilancio della stagione invernale appena conclusa. Tirate le somme, il suo Amministratore delegato, Alexei Miller, si reca al Cremlino per ottenere il vaglio di Medvedev e del Primo ministro, Vladimir Putin. Sulla base dei prezzi di mercato del gas naturale – attualmente intorno al 2,8 dollari al metro cubo – Mosca stabilisce unilateralmente gli importi di produzione, acquisto e vendita della materia prima. È una strategia di mercato che viene poi introdotta con l’arrivo dell’autunno successivo. Ogni volta si ripete la stessa scena: Gazprom decide il valore del gas estratto dai suoi giacimenti in Siberia, di quello comprato in Kazakhstan, Turkmenistan e Uzbekistan, infine impone la cifra maggiorata ai suoi primi e diretti acquirenti, Bielorussia e Ucraina. In un secondo momento apre i negoziati con l’Ue. Non appena i rispettivi governi di Kiev e Minsk ammettono di non poter affrontare simili spese, si apre una serie di trattative fittizie, che Mosca ha già vinto in partenza. La Gazprom infatti preferisce non negoziare sul prezzo, bensì sulla quantità fornita. L’accordo del 21 aprile scorso fra Medvedev e il suo omologo ucraino, Viktor Janukovic, ha previsto una riduzione del 30% delle forniture di metano dalla Russia all’Ucraina. Mosca ha inoltre ottenuto una proroga di 25 anni per l’usufrutto della base navale militare di Sebastopoli, nel Mar Nero. Questa era stata il quartier generale della Flotta meridionale della Marina sovietica e prima ancora per quella gli zar. Dopo il 1991, tutta la Crimea è passata sotto la giurisdizione di Kiev, ma alle sue banchine sono rimasti attraccati i sottomarini e le navi russe.
Dalla contrattazione in corso con Minsk, anch’essa favorevole solo per la Russia, il guadagno per quest’ultima è economico, ma altrettanto strategico. Finché Lukashenko resterà al potere, Mosca sa che la Bielorussia non sarà territorio di conquista per l’Occidente. La totale mancanza di democrazia e Stato di diritto escludono Minsk dal novero degli interlocutori della Nato e dell’Unione europea. Il Presidente Lukashenko non può far altro che mettersi sotto le ali protettive del Cremlino e sottostare alle sue decisioni. Da un lato quindi la Gazprom gli impone una quota di gas ridotto di quantità e a prezzi maggiorati. Dall’altro il territorio bielorusso assume il ruolo di un’appendice strategico-difensiva proiettata nel cuore dell’Europa centrale.
La strategia porta a un duplice guadagno. Per la Gazprom si tratta di un recupero di gas naturale, invenduto alla Bielorussia e quindi reindirizzabile su altri mercati, prevalentemente quello europeo. In questo modo la compagnia riesce a rispondere positivamente alle richieste di idrocarburi che le giungono da Occidente, per le quali le sue riserve in Siberia si stanno dimostrando insufficienti.
Eurogas, l’istituto statistico di Bruxelles responsabile del settore, ha calcolato che, nel 2009, la domanda di gas naturale dell’Ue è stata di 480 miliardi di metri cubi, a fronte di una disponibilità di Gazprom non superiore ai 510 miliardi. Stando così, siamo a un equilibrio di mercato che esclude per la compagnia di Stato russa la possibilità di dotarsi di una riserva in caso di emergenza. “È altamente probabile che in un futuro non molto lontano, la Russia non sarà in grado di rispondere positivamente alla richiesta di idrocarburi che le perviene dalle macchine industriali europee”, la dichiarazione è stata rilasciata a Vienna ancora all’inizio dello scorso anno da Alexandr Golovin, Ministro plenipotenziario del corpo diplomatico del Cremlino. A fronte di questo, è automatico che Gazprom preferisca vendere ai Paesi ricchi e non alla disastrata Bielorussia, andando a recuperare altri giacimenti fuori dai confini nazionali, vale a dire in Caucaso e Asia centrale. Anche qui i regimi sono quasi tutti assoggettati a Mosca. Questo è il secondo elemento di vantaggio per Medvedev. L’influenza politica che il Cremlino sta pazientemente ricostruendo intorno alla Santa Madre Russia ha come “ariete di sfondamento” la sua compagnia di idrocarburi.
A questo punto non si capisce per quale motivo Bruxelles possa sentirsi non coinvolta nel risiko moscovita che ieri ha annichilito la Bielorussia. È vero, le minacce del Cremlino restano limitate ai suoi satelliti, perché solo nei loro confronti Medvedev e Putin possono permettersi di comportarsi con prepotenza. Tuttavia l’espansionismo russo è sempre stato di carattere difensivo e volto a risolvere la sua paura di accerchiamento. È una psicosi che covava già nella Russia zarista, che si è mantenuta con l’Urss e resta tuttora in vita. Oggi i timori nutriti a Mosca hanno origine nella crescente influenza della Cina a est e nella volontà della Nato di intervenire come soggetto monolitico nelle varie criticità della comunità internazionale. Non è un caso che la Russia non abbia mai nascosto il proprio disappunto in merito al fatto che sia l’Alleanza atlantica a gestire la crisi afghana, su mandato dell’Onu. Di conseguenza, per fronteggiare gli avversari occidentali – Nato vuol dire Stati Uniti ed Europa – e quelli asiatici (Cina, ma anche India), Mosca non può che sottomettere i suoi satelliti con l’interminabile ricatto del gas. Di questo l’Ue deve esserne cosciente.

Pubblicato su liberal del 22 giugno 2010

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Scorrendo i fatti che hanno coinvolto la Russia in queste ultime due settimane, si ha l’impressione che Mosca si stia preparando per un nuovo rigurgito di orgoglio. Come due anni fa contro la Georgia, oppure ancora prima contro l’Ucraina. A quasi vent’anni dalla piena disgregazione dell’Unione Sovietica, i vertici del Cremlino – soprattutto il suo numero 2, il Primo ministro Vladimir Putin – mostrano tutte le patologie che erano proprie della nomenclatura del Pcus. Un nazionalismo espansionistico oltre i confini naturali dell’ex Impero sovietico, la psicosi dell’accerchiamento, ma soprattutto il tentativo di percorrere altre strade rispetto a quelle dove l’orso russo si è visto costretto a chinare il capo di fronte alla potenza statunitense. Il nuovo trattato per il disarmo nucleare, firmato a Praga la scorsa settimana, è stato osannato come un nuovo passo per lo smantellamento degli arsenali tuttora operativi e che restano un retaggio della guerra fredda. Il Presidente Usa, Barack Obama, e il suo omologo russo, Dimitri Medvedev, hanno trovato un compromesso nel rinunciare entrambi a oltre 1.500 testate missilistiche nucleari. È logico che questa decisione torni più favorevole agli Stati Uniti, che dispongono di una capacità economica maggiore per poter effettuare una futura ed eventuale accelerazione nel campo degli armamenti. Questo Putin lo sa bene. Il Premier russo si ricorda i motivi della fine della guerra fredda e della sostanziale sconfitta dell’Urss. Motivo, questo, che lo ha portato a mantenersi in ombra sia nell’ultima fase dei negoziati, sia nel corso delle celebrazioni del trattato a Praga. Nell’occasione il tandem Medvedev-Putin si è separato. Ed è paradossale come quest’ultimo abbia preferito partecipare alle celebrazioni del 70 esimo anniversario del massacro di Katyn – altra pagina nera nella storia dell’Urss – piuttosto che assistere impotente alla disgregazione del “tesoro atomico” dell’Impero in cui lui, giovane agente del Kgb, si era fatto le ossa.
Lasciando da parte questi sentimentalismi individuali, per alcuni aspetti poco appropriati per una mens algida com’è quella del Premier russo, non sono passati inosservati i “ma e però” sottolineati verbalmente dal Cremlino prima e dopo la firma del trattato. Il Ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, aveva mantenuta aperta la possibilità che la firma potesse essere rinviata ulteriormente, nel caso il suo governo avesse trovato anche un minimo “cavillo” sfavorevole. Lo stesso Presidente Medvedev ha detto che, oltre allo smantellamento dei missili contenuti nei silos di entrambi gli arsenali, è necessario ragionare anche in termini politici e contenere le reciproche capacità Abm (anti ballistic missile). Un messaggio, questo, chiaramente rivolto agli Usa e alle loro intenzioni di installare alcune basi di missili Patriot in Europa orientale. Finché Mosca non sarà matematicamente certa della rinuncia a questo progetto da parte del Pentagono, è possibile che l’accordo di Praga non venga ratificato.
Consapevoli di questi pro e contro e mossi dall’ambizione di tornare a essere la Santa Madre Russia, è possibile che alcuni dirigenti del Cremlino, guidati proprio da Putin, stiano realizzando il classico “Piano B”. Questo sarebbe di natura parzialmente ridotta, dalle velleità puramente regionali, ma altrettanto ambizioso. Da un punto di vista geografico, per Mosca il grande cruccio post-Urss è stato quello di aver perso il controllo dell’Europa orientale da un lato, insieme al Caucaso e all’Asia centrale dall’altro. È evidente quanto interessi al Cremlino il recupero di queste tre macroaree, se non in modo diretto, attraverso politiche ad hoc, per esempio puntando sul settore energetico. È emblematico il caso dell’Ucraina e dei ripetuti ricatti a Kiev, per il passaggio del gas siberiano sul suo territorio, in base a prezzi e imposizioni dettate unilateralmente da Gazprom. Alla fine del 2004, Mosca era giunta alla convinzione che l’indipendenza del Paese dell’Europa orientale fosse ormai un dato di fatto. Un suo governo a lei compiacente tuttavia avrebbe colmato questo gap strategico. L’elezione di un europeista e filo-Nato come Viktor Yushenko però fece saltare i piani moscoviti. La “rivoluzione arancione” portò quest’ultimo alla leadership del Paese, senza che Mosca potesse intervenire. In questi cinque anni, Yushenko ha tenuto duro, fra gli aumenti di prezzo del gas russo, che ogni inverno si è fatto più caro, e una classe dirigente nazionale a lui sempre meno favorevole.  Con le elezioni dello scorso febbraio però, ha dovuto lasciare il passo a Viktor Yanukovic: amico fidato della Russia ed esplicitamente favorevole alle sue mire energetiche. Finora il neoeletto non ha manifestato un’effettiva inversione di rotta rispetto al suo predecessore. D’altra parte, si può supporre che oggi il Cremlino di Mosca guardi il Cremlino di Kiev con fiducia per la ritrovata amicizia. Tant’è che la scorsa settimana Putin si è incontrato con il suo omologo ucraino, Mykola Azarov, per un confronto bilaterale di stampo economico, soprattutto in ambito energetico.
Ben più delicata è la questione polacca. La presenza del Primo ministro russo alle celebrazioni di Katyn è stata accolta positivamente da Varsavia. Il gesto di apertura è stato interrotto però dalla tragedia nella quale è deceduta praticamente l’intera classe dirigente polacca. Gli avvenimenti sono ancora suggestionati dalla emotività collettiva e le relative indagini sono solo all’inizio. Vero è però che il defunto Presidente polacco Kaczynski era uno strenuo difensore dell’ingresso del suo Paese nella Nato e nell’Unione Europea. Come è avvenuto. Sua inoltre era stata la disponibilità all’installazione delle basi missilistiche Usa sul territorio nazionale, oggetto di discordia tra Mosca e Washington. La Polonia ha sempre temuto – e subìto – l’aggressività del potente vicino orientale. Oggi, a Varsavia con le elezioni presidenziali previste a giugno, si potrebbero aprire scenari nuovamente favorevoli alla Russia. Questo significa una sua potenziale proiezione nel cuore dell’Europa. La coincidenza vuole peraltro che, proprio la scorsa settimana, Russia e Polonia abbiano firmato un accordo per una fornitura di gas fino al 2037. La decisione, vantaggiosa ovviamente per Gazprom, alleggerisce le tensioni che erano emerse anni fa in seguito alla nascita del progetto “North Stream”, il gasdotto russo-tedesco che bypasserebbe la Polonia. Con Kiev e Varsavia più accondiscendenti, Mosca riaprirebbe una linea politica squisitamente filo-europeista, iniziata ancora da Pietro il Grande, proseguita a fasi alterne da alcuni zar e soprattutto propria dell’Urss post-staliniana. La Russia ha sempre sentito la necessità di mostrare ai governi occidentali tutta la sua forza.
Per questo però, ha bisogno di avere le spalle coperte. Caucaso e Asia centrale quindi non devono essere motivo di preoccupazione. Sui recenti scontri in Kirghisistan si stanno addensando le ombre della strumentalizzazione del Cremlino, che vorrebbe riprendere il controllo delle Repubbliche ex sovietiche, con la stessa metodologia adottata per l’Ucraina: influenza della Gazprom sulle politiche energetiche nazionali e successivo posizionamento degli uomini di fiducia nei punti chiave delle istituzioni locali. Così facendo, la Russia creerebbe un cordone sanitario intorno al “caos Asia”, epicentro dell’Islam più radicale che sta lentamente penetrando negli Stan countries, la cui popolazione è comunque musulmana.
Il risiko putiniano ha tre debolezze però: la nuova insorgenza terroristica di matrice islamica in Caucaso, l’inaffidabilità degli oligarchi che fanno parte della corte del Premier – e che devono essere controllati rigorosamente – e il crescente interesse verso la Russia da parte delle organizzazioni sui diritti umani. Dopo l’attentato alla metropolitana di Mosca due settimane fa, il Governo sta ricorrendo a misure drastiche, mediante rappresaglie punitive in Daghestan e altre aree del Caucaso. La politica dell’“occhio per occhio” – che è sempre stata caratteristica di Mosca – potrebbe essere controproducente, se non è appoggiata dal dialogo fra le istituzioni centrali e i capi mujaheddin più “acquistabili”. A questo va aggiunto il necessario allineamento russo alla cooperazione internazionale contro il terrorismo. Sul fronte delle oligarchie finanziarie, la vicenda del miliardario azero Telman Ismailov spiega come il libero mercato interno sia in realtà manovrato dal Primo ministro russo. Ismailov, magnate del settore alberghiero, era caduto in disgrazia lo scorso anno per la sua scelta di inaugurare in Turchia l’hotel più costoso d’Europa (1,4 miliardi di dollari). Fu un investimento all’estero quando Mosca era nel pieno della recessione finanziaria e che fece perdere le staffe a Putin. Ne conseguì che i mercati moscoviti di Cerkizovski, di proprietà del tycoon azero dove lavorano oltre 100 mila persone per lo più cinesi, furono posti sotto sequestro perché ritenuti un centro di smistamento del contrabbando e dell’immigrazione clandestina. All’inizio di questo mese però, Putin ha assegnato allo stesso Ismailov la responsabilità dell’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2014, che si terranno nella cittadina cecena di Coci. Putin così ha calato sull’oligarca indisciplinato prima la pena e poi la possibilità di riscatto. Un gesto da “piccolo padre” un suo sudditi. L’ultimo nodo, quello delle Ong straniere, è il più difficile da sciogliere. A suo tempo l’Urss era impermeabile alle accuse di censura che provenivano da oltre cortina. Oggi l’eliminazione fisica di un oppositore – vedi il caso Politkovskaja, la giornalista dissidente uccisa nel 2006 – non passa inosservato. Il Cremlino deve trovare un’alternativa quindi alle maniere radicali e “spicce” che appartenevano al Kgb. Da un lato per conservare l’apparente trasparenza delle sue istituzioni, dall’altro per contenere la tenacia delle opposizioni liberal-democratiche. Ma questo è un compromesso che nessun regime autoritario è mai riuscito a realizzare.

Pubblicato su liberal del 13 aprile 2010

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