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Archive for the ‘America Latina’ Category

Se ne parla perchè ad aprile sarà il trentensimo anniversario della guerra. E magari anche perchè in quelle acque c’è un bel po’ di petrolio che farebbe gola agli argentini. Mentre gli inglesi non glielo danno. Chiamali scemi! Adesso si discute del Dauntless, cacciatorpediniere di Sua Maestà, che incrocia l’Atlantico del Sud, con a bordo l’orgoglio britannico e pure il principe William. Magari è una bolla diplomatica. Oppure una seccatura latino-americana, di cui la grande politica internazionale farebbe volentieri a meno. Certo è che Londra sarà sempre pronta a reagire. Rule Britannia quindi. E questo è il mio unico arrocco ideologico.

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di Antonio Picasso

Le dinamiche politiche della crisi libica si spostano in Estremo oriente. Ieri, il summit sino-francese di Pechino si è concentrato quasi unicamente sul futuro del Paese nordafricano. Il premier cinese, Hu Jintao, ha accolto il presidente Nicolas Sarkozy con lo stesso atteggiamento di rigidità assunto dai suoi diplomatici fin dall’inizio dei raid. La Cina ha ribadito che Odissey Dawn, così come si sta sviluppando, è andata oltre le direttive della risoluzione 1973 dell’Onu. Ha sottolineato che la no fly zone era stata imposta per proteggere i civili e non per agevolare gli attacchi della Nato. Insomma, Pechino, di fronte al più agguerrito degli attuali nemici di Gheddafi, non si è spostata dalle sue posizioni iniziali. Diverso è il comportamento della controparte. Il semplice fatto che il summit non sia andato a monte lascia pensare che Sarko sia disponibile a ridimensionare la sua aggressività. Parigi non ha rilasciato dichiarazioni di qualsiasi sorta. Forse l’Eliseo sta valutando come ricucire lo strappo coi cinesi. A costo anche di ridurre i raid. Nell’incontro a due, deve aver pesato l’elemento petrolio. Total nutre interessi sia in Nord Africa sia in Cina. È probabile che il presidente francese stia vivendo ore di profonda incertezza, nel capire quali contratti della major transalpina siano più importanti, se quelli di lungo periodo in Cina, oppure se le concessioni libiche da rivedere con il futuro governo. Va ricordato, peraltro, che anche la partecipata di Pechino, la Cnpc, è presente nel Paese nordafricano. Il che complica ulteriormente i rapporti fra le due potenze.
Come contraltare all’eventuale apertura di Parigi, adesso è Londra a mostrare nuovamente i muscoli. Sempre ieri, il premier britannico, David Cameron, ha palesato l’ipotesi di armare i ribelli. Anche in questo caso, si tratterebbe di un’iniziativa non contemplata dal documento delle Nazioni Unite. Inoltre, rappresenterebbe solo una conferma di quello che, pare, stia già accadendo. Proprio i Sas – le forze speciali di Sua Maestà – starebbero combattendo a fianco degli insorti ormai da un mese.
Silenzio invece sull’altra sponda dell’Atlantico. Barack Obama, dopo l’ultimo discorso all’elettorato, rassicurante sul fatto che quello in Libia non sarebbe un conflitto, crede di aver compiuto il proprio dovere. In nome della democrazia e della trasparenza.
In realtà, l’intera attività diplomatica spalmata nelle diverse cancellerie delle superpotenze mondiali perde completamente di significato se non viene risolto il “problema Gheddafi”. Vale a dire se non si stabilisce cosa farne del rais. Stabilita l’impossibilità di eliminarlo mediante operazione chirurgica, come avrebbero voluto molti operativi sul fronte libico, restano due soluzioni. O che Gheddafi cada in battaglia. Ma così si ritornerebbe alla carta appena esclusa. Con il rischio, inoltre, di assurgere a martire. Non resta che l’esilio. Il problema è dove un ex rais libico, al potere da 42 anni e con solidi legami con tutti i regimi più dispotici del mondo, potrebbe essere “parcheggiato” senza che torni a dare fastidio?
Per come si è comportato finora, è chiaro che Gheddafi non sia Mubarak, il quale, una volta isolato dai suoi stesi uomini di fiducia, è riuscito a garantirsi un buen retiro a Sharm el-Sheihk. Una volta messo sotto scacco sul campo di battaglia – chissà quando? – il colonnello non potrà restare in Libia. L’idea che venga catturato e appaia di fronte a tribunale internazionale è comunque rischiosa. Potrebbe essere trattato come un prigioniero di guerra. Difficile farlo figurare come un genocida alla stregua di Milosevic. E se fosse lui stesso a fuggire?
È l’ipotesi che sta prendendo piede. Certo, la fuga sarebbe implicitamente agevolata dai ribelli e dalla Nato. Entrambi potrebbero far finta di non aver visto nulla. A quel punto, Gheddafi potrebbe riparare presso governi amici in Africa, oppure in America latina. In questi giorni è stata avanzata l’ipotesi del Ciad. Francamente questa è la meno plausibile. Per tre motivi: è dalle piste di questo Paese che partono molti dei Mirage francesi che stanno bombardando gli uomini del colonnello. Gheddafi è un leader rancoroso e non dimenticherà lo sgarbo di Ndjamena. Il Ciad, inoltre, è da anni in aperto contenzioso con il vicino Sudan per la questione Darfur. Gheddafi, assurgendo a paciere in seno all’Unione africana, ha più volte preso posizione in favore di Karthoum. Infine, il Paese vanta la più estesa riserva di uranio al mondo. Questo significa la presenza di investitori stranieri che giungono da tutto il mondo – soprattutto Cina e, ancora una volta, Francia – accompagnati dai loro contractor. Non si voglia che Gheddafi, una volta scappato dalla Libia, possa incontrare un commando di dubbia provenienza! Del resto, nemmeno gli alleati continentali del ex rais, Omar al-Bashir in Sudan e Robert Mugabe dello Zimbabwe, possono garantirgli un esilio sereno all’ombra della sua tenda beduina. L’intera Africa, soprattutto alla luce delle rivolte al nord e in Medioriente,  è sinonimo di instabilità e di improvvise fiammate rivoluzionarie. Al giorno d’oggi, non c’è dittatura che possa certificare la propria sopravvivenza su un lungo periodo. È plausibile che questo Gheddafi l’abbia intuito.
Al contrario, il Venezuela di Hugo Chavez appare più stabile. Fra i due leader l’amicizia personale non è incrinata da precedenti negativi. Inoltre, il presidente venezuelano ha più volte offerto il proprio aiuto, sul piano diplomatico, in queste settimane di crisi. Caracas, quindi, potrebbe far comodo a Gheddafi. L’ex rais alla ricerca di una sede straniera da dove continuare la sua lotta personale. Magari non più in termini militari. Per quanto non è detto che si ritorni ad avere un Gheddafi che sponsorizza attività terroristiche in Occidente. L’importante però per il colonnello è salvare se stesso e garantire un futuro al suo clan, attraverso quelle risorse economiche non ancora congelate. Proprio Chavez, nell’invettiva anti-occidentale di martedì, parlava di un «furto di 200 miliardi di dollari, perpetrato da questo nuovo colonialismo a spese della Libia». Da notare che, solo cinque mesi fa, i due regimi avevano creato un fondo di investimento comune, della somma di 1 miliardo di dollari. Per Gheddafi, in proporzione a quanto gli è stato confiscato, questo è nulla. Si tratta comunque di un capitale iniziale. Il contenitore di questi progetti c’è già e si chiama “Fondazione afro-latinoamericana di sostegno per Gheddafi”. Mancano solo le idee. Arriveranno da Tripoli?

Pubblicato su liberal del 31 marzo 2011

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La resistenza di Gheddafi è dettata da tre fattori: l’apatia delle Nazioni Unite nel non aver ancora adottato una risoluzione in favore dei rivoltosi, la capacità delle forze fedeli al colonnello di fronte a un’opposizione sostanzialmente male organizzata e, soprattutto, negli appoggi stranieri al regime.
A questo proposito, il non sostenere la rivolta significa automaticamente offrire uno spazio di manovra a Gheddafi. All’inizio della crisi, è risultata sorprendente l’inerzia dei governi occidentali di fronte alla repressione messa in atto dal colonnello. Non è forse questa una mancata presa di posizione che ha permesso al regime di organizzare la propria resistenza?
Nell’osservare coloro che si dichiarano inossidabili alleati del governo tripolino, salta subito all’occhio il contributo di mercenari africani, giunti soprattutto da Senegal, Sudan e Zimbabwe. Gheddafi, se vuole sopravvivere ed eventualmente fuggire, deve fare appello a quei governi che la Libia ha sempre sostenuto e con i quali è andato a comporre una sorte Asse del male in Africa. È il caso del sudanese Omar al-Bashir, e dello zimbabwese Robert Mugabe. Il codice di fratellanza e solidarietà tra questi despoti oggi costituisce una solida difesa della Libia. Il colonnello ha difeso Bashir in occasione dello spiccato ordine di arresto, da parte della Corte penate internazionale. Adesso il leader di Karthoum è tenuto a ripagare il favore.
Contestualmente vanno elencati i sostenitori politici del governo di Tripoli. Il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolovia di Evo Morales si sono dichiarati contrari a qualsiasi intervento militare della comunità internazionale. La scorsa settimana da Caracas, è giunta la proposta di creare una forza di pace, sotto l’egida dell’Onu, per il ripristino dell’ordine a Tripoli. Il Venezuela e la Libia si sono avvicinati molto in questi ultimi anni. Già nel 2009, Chavez aveva esaltato l’alleanza fra due regimi «uniti nel destino comune contro l’imperialismo americano». Adesso, secondo Caracas, qualsiasi intervento militare straniero sarebbe una catastrofe. «Gli Stati Uniti e l’Europa si sono già detti disposti a invadere la Libia», si leggeva in una nota del Ministero degli Esteri venezuelano. «Cosa vogliono? Il petrolio libico». Sulle relative concessioni, del resto, non è escluso che voglia mettere mano anche il Venezuela.
La questione petrolifera, inoltre, offre lo spazio per riflettere su coloro che si limitano a sfruttare la crisi libica per i propri interessi. In questo caso, si tratta non di un sostegno diretto al rais, bensì di una strumentalizzazione della rivolta. L’interesse non sarebbe sulla permanenza o meno al potere di Gheddafi, bensì sulla prosecuzione dell’instabilità. Va ricordato, infatti, che solo con i disordini in Libia il prezzo del petrolio è schizzato a 120 dollari al barile. L’impennata non si è avuta né con la caduta di Bel Alì né con quella di Hosni Mubarak. Segno che, sul mercato internazionale, gli speculatori attribuiscano maggior valore ai giacimenti di oro nero di Gheddafi, piuttosto che ai proventi del Canale di Suez, oppure alle maxi entrate del turismo di Egitto e Tunisia.
Ieri l’Independent  scriveva che gli Usa, nel tentativo di far cadere Gheddafi senza un proprio coinvolgimento militare diretto, avrebbero chiesto all’Arabia Saudita di rifornire armi ai ribelli di Bengasi. Ryiadh, tuttavia, avrebbe momentaneamente scartato l’invito. La monarchia sta facendo fronte “al giorno della collera” della sua comunità sciita (pari al 10% della popolazione). Di conseguenza, si sarebbe dichiarata troppo concentrata nel contenere l’opposizione interna e quindi impossibilitata a sprecare risorse altrove. Il rifiuto saudita potrebbe essere legato ai vantaggi economici maturati con i disordini di Tripoli. Sul breve periodo, il rincaro petrolifero è accolto a braccia aperte da Riyadh. Più si prolunga la crisi in Libia, maggiore è la liquidità a sua disposizione. Si tenga anche conto, peraltro, che se re Abdullah è garante della Corona di fronte all’Occidente, non si può dire lo stesso della sua corte. La dinastia degli al-Saud è composta da migliaia di principi di sangue. È impossibile pensare che questi costituiscano un blocco monolitico e interamente amico di Washington. Ben più plausibile che al suo interno vi siano correnti interessate a tenere elevata la tensione nel Mediterraneo – oppure a difendere Gheddafi – per favorire i rapporti commerciali tra il Golfo e l’Estremo oriente.
La stessa situazione potrebbe tornare altrettanto vantaggiosa per l’Iran. Teheran ha sì preso le distanze dalle repressioni del colonnello. Non è un caso però che solo dopo la bufera che ha investito la Libia, le sue due navi siano riuscite a entrare nel Mediterraneo, attraverso Suez. Anche questo indica che il vero ago della bilancia nordafricana è a Tripoli e non al Cairo. La crisi libica poi distoglie l’attenzione mondiale dalle attività nucleari degli Ayatollah, come pure dai loro interessi sedimentati nella Striscia di Gaza, in Libano e in Siria.
Il terzo e ultimo sottoinsieme di soggetti ancora vicini a Gheddafi va rintracciato nel cuore dell’Europa. Le major petrolifere, fino a ieri alleate del colonnello, hanno abbandonato pozzi e infrastrutture, senza tuttavia prendere le distanze politiche. C’è stato un “si salvi chi può”, non una netta chiusura dei contatti. Cosa che, invece, è accaduta in Iran dopo la promulgazione delle sanzioni Onu. Questo lascia pensare che, nel settore degli idrocarburi, non regni la matematica certezza che Gheddafi possa cadere. Al contrario, nella malaugurata ipotesi che la sua repressione possa avere successo, la ripresa dei rapporti economici andrebbe valutata nuovamente. Del resto i finanziatori della controrivoluzione sono da rintracciare proprio in Occidente. La scorsa settimana la Guardia costiera britannica ha fermato un cargo con a bordo 117 milioni di euro in banconote di Sua Maestà. La nave era diretta a Tripoli e l’ingente carico costituiva la busta paga dei fedelissimi di Gheddafi. Ancora meglio: l’esempio del principe Andrea, il figlio della Regina Elisabetta, e di Anthony Glees, presidente della London School of Economics, entrambi sotto i riflettori per gli eccessivi legami con Tripoli, rammenta quando gli interessi di Londra siano intrecciati con quelle del regime. Il governo Cameron non osa dirlo, tuttavia, la caduta del colonnello sarebbe compromettente per l’intera economia britannica. E forse non solo per questa.

Pubblicato su liberal dell’8 marzo 2011

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“Da oggi inizia una nuova pagina di storia per tutti i cubani”. È con questa breve dichiarazione che il primo gruppo di sette dissidenti cubani, arrivati ieri a Madrid, si è presentato alla stampa. Secondo gli accordi presi fra il Governo di Cuba, quello spagnolo e la Santa Sede, dovrebbero essere 52 gli oppositori del regime prossimamente rilasciati dalle carceri dell’Avana. Ricardo Gonzalez Alfonso, Antonio Villarreal Acosta, Lester Gonzalez Penton, José Luis Garcia Paneque, Pablo Pacheco Avila, Omar Moisés Ruiz Hérnandez e Julio Cesar Galvez Rodriguez, questi i nomi dei prigionieri che, accompagnati dalle rispettive famiglie, sono arrivati nella capitale spagnola. Si tratta della prima rappresentanza del cosiddetto “Gruppo dei 75”: un movimento di opposizione i cui membri vennero condannati a 28 anni di carcere, nel 2003. La scelta di liberare subito queste sette persone è stata dettata dal loro stato di salute. Più volte Amnesty International aveva lanciato un appello affinché le Autorità carcerarie di Cuba alleggerissero le catene che cingevano le caviglie di questi dissidenti. Villarreal Acosta infatti era ricoverato da mesi in un ospedale psichiatrico, mentre a Ruiz Hérnandez è stato diagnosticato un attacco di tubercolosi.
A scorrere la lista, si nota che essa è composta unicamente da giornalisti e attivisti politici. Non è presente nessun criminale comune, come invece alcuni osservatori filo-castristi in Europa hanno malignamente ipotizzato. Gonzalez Alfonso è forse il più noto tra i rilasciati. Nel 2008, Reporters sens frontières lo ha nominato “Reporter dell’anno”, per il suo impegno come corrispondente da una terra dove non esiste democrazia. Ruiz Hérnandez e Pacheco Avila sono suoi colleghi. Villarreal Acosta, Gonzalez Pentòn e Garcia Paneque sono invece esponenti di gruppi politici. Galvez Rodriguez infine è un sindacalista. Si tratta di personalità con un’estrazione politica di stampo socialista, lontana quindi dall’atteggiamento filo-Usa che invece ispira molti altri fuoriusciti da Cuba, ora residenti in Florida.
Durante la primavera di sette anni fa, Fidel Castro diede l’ordine per l’esecuzione di una vera propria “purga” repressiva contro l’opposizione. Era la Primavera negra de Cuba. Il regime approfittò del fatto che gli Stati Uniti avessero appena cominciato la guerra in Iraq. Il Golfo del Messico quindi era escluso dai riflettori mediatici e della diplomazia mondiale. Va detto inoltre che la giurisdizione cubana non contempla lo status di “prigioniero politico”. Il “Gruppo dei 75” quindi venne incriminato per ragioni legate alla sicurezza nazionale cubana, con una sentenza che etichettava i suoi membri ambiguamente come “prigionieri di coscienza”. Il Governo di Cuba sottolinea da sempre che le libere professioni di giornalisti e le opposizioni politiche di vario titolo siano una copertura per gli agenti al soldo della Cia.
Adesso la testimonianza di questi dissidenti circolerà sulle pagine della stampa mondiale. Gli accordi con la Spagna e il Vaticano non prevedono che i rilasciati siano vincolati dal silenzio. Anzi, non essendo riconosciuti come esiliati politici, bensì come immigrati, potranno circolare liberamente, rientrare in patria in qualunque momento e raccontare la loro esperienza nelle carceri cubane. Cile e Stati Uniti, a questo proposito, hanno offerto per primi la loro ospitalità.
L’episodio segna un nuovo passo nel tramonto del sogno di Castro e Che Guevara. La fine del socialismo reale è dietro l’angolo e il rischio che l’isola ceda al neo-colonialimo made in Usa è quasi una certezza. Raul Castro, alla guida del Paese da poco più di due anni, si sta muovendo affinché l’indipendenza cubana venga parzialmente conservata, per opera della Chiesa cattolica e dell’Europa. In questo il ruolo della Spagna – primo investitore occidentale sull’isola – è quello di apripista. Mentre Fidel Castro torna in televisione bersagliando l’America di una retorica antiquata, suo fratello sta cercando di salvare il Paese rimettendosi al male minore.

Pubblicato su liberal del 14 luglio 2010

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Non c’è pace per il Golfo del Messico. Ieri il Governo venezuelano ha annunciato – attraverso un originale “post” sul social network di Twitter – l’affondamento della piattaforma “Aban Pearl”, utilizzata per l’estrazione di gas naturale dai giacimenti off shore nel Mar dei Caraibi, di proprietà della compagnia di Stato “Petróleos de Venezuela Sa” (Pdvsa). Immediatamente il fatto è stato collegato con il disastro petrolifero che si è abbattuto poche centinaia di miglia più a nord e che sta martoriando il bacino del Missisippi e della Louisiana. Caracas tuttavia ha precisato che l’incidente intercorso di fronte alle coste del Paese non è della stessa portata rispetto a quello della “Deepwater Horizon”. I 95 operai impiegati sulla “Aban Pearl” sono stati messi subito in salvo. Inoltre l’esplosione pare non aver provocato alcun danno ambientale.
Da un punto di vista tecnico, un incidente su una piattaforma petrolifera ha un impatto devastante sulla natua. Di questo ne sono una testimonianza le immagini della marea nera che continua a espandersi nel Golfo del Messico. La fuoriuscita non controllata di gas naturale – quello che liquefatto  diventa Gnl – oppure l’esplosione di una piattaforma di estrazione, com’è nel caso della “Aban Paearl”, limita i danni all’aria. L’inquinamento resta contenuto a livello atmosferico e non coinvolge l’acqua. Il fatto inoltre che si sia registrata un’esplosione può far supporre un’immediata combustione del gas fuoriuscito. Siamo ben lontani quindi dalle conseguenze sulla natura che la British Petroleum e il Governo degli Stati Uniti stanno cercando di contenere. Del resto incidenti simili sono più legati ai giacimenti di carbone e non a quelli unicamente di gas naturale. L’ultimo del caso risale a dieci giorni fa, quando una fuga di metano nella miniera carbonifera di Raspadskaya, in Siberia, ha provocato 60 morti. La storiografia di incidenti relativi al Gnl è limitata all’inefficienza e alla rottura delle contutture di trasporto, non ai giacimenti in senso stretto.
Il problema è un altro. Possiamo fidarci della curiosa comunicazione su un social network da parte del Governo di Caracas, che non è famoso per la sua trasparenza politica?
È solo di martedì scorso la proposta del Presidente Usa, Barack Obama, di tassare di un centesimo al barile il petrolio estratto giornalmente, al fine di creare un fondo internazionale comune per intervenire in situazioni di emergenza come queste. L’iniziativa della Casa Bianca, a ben guardare, non ha riscosso la reazione sperata. Anzi, il silenzio da parte del mercato e degli altri governi interessati eventualmente al progetto è eccheggiato come un rifiuto implicito a questa idea di partnership mondiale. Del resto la proposta è apparsa tardiva e certo non si può pensare che il primo a sostenerla sia il Presidente venezuelano Hugo Chavez, da sempre nemico giurato di Washington.
D’altra parte la catena di coincidenze e quindi di incidenti in quest’ultimo mese deve, a questo punto, far riflettere. La domanda di idrocarburi a livello mondiale è in continua crescita. Secondo l’International Energy Outlook l’attuale consumo di petrolio è pari a circa 200 Btu (British thermal unit, l’unità di misura dell’energia utilizzata in Gran Bretagna e Stati Uniti), mentre quella di gas naturale supera di poco i 100 Btu. Lo stesso osservatorio però prevede che, da qui al 2025, i due indici subiranno rispettivamente un aumento del 25% e del 50%. Questo perché le locomotive industriali che trainano l’economia del mondo restano ancora eccessivamente legate al consumo di combustibili fossili. Cina, Europa, Giappone, India, Russia e Stati Uniti sono dei giganteschi motori a scoppio. La loro popolazione, i loro sistemi di riscaldamento e di trasporto, ma soprattutto di produzione industriale sono vincolati al petrolio e al gas naturale. Certo, le iniziative per l’affermazione di fonti energetiche alternative non mancano. Francia e Usa restano all’avanguardia nel settore nucleare. Altri Paesi europei, in primis Danimarca, Germania e Regno Unito, stanno cercando di potenziare la produzione nazionale di energia eolica e solare. Ma tutto questo non basta. È evidente che, con l’aumento demografico della popolazione mondiale e l’affermarsi di nuove realtà economiche – per esempio in America Latina e anche in Africa – implica l’urgenza di dettare una linea politica comune a tutti i Paesi produttori di idrocarburi, affinché garantiscano maggiori sicurezze per l’uomo e per l’ambiente. Al tempo stesso è richiesto uno sforzo maggiore per la ricerca di nuove fonti di energia.

Pubblicato su liberal del 15 maggio 2010

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