«Quando si parla del livello settimo di radiazioni, si fa riferimento a una classificazione qualitativa che ha impatto sull’esterno». Francesco Troiani è membro della Commissione tecnica per la sicurezza nucleare e la protezione sanitaria delle radiazioni ionizzanti. È stato inoltre presidente della Nucleco, un’impresa partecipata dall’Enea e impegnata nella gestione integrata dei rifiuti e delle sorgenti radioattive. Intervistato in merito alla crisi di Fukushima, tende a non esporsi in previsioni allarmistiche. «Non siamo in possesso di rilevamenti abbastanza chiari per poter sostenere una qualsiasi critica nei confronti delle autorità giapponesi». La giornata, infatti, si chiude con le dichiarazioni di Tokyo sull’upgrade al settimo livello. Tuttavia, la stessa linea non è stata adottata dall’Aiea. «Già questa discrepanza di vedute impedisce una visione uniforme del fenomeno».
Presidente, cosa significa “livello settimo”? Come si può spiegare ai non addetti ai lavori?
Dobbiamo ricordarci che dal primo al terzo livello, si parla semplicemente di guasti e anomalie. Si tratta di casi in cui non vengono rilasciate radiazioni all’esterno del reattore. Se si vuole, si può parlare banalmente di incidenti. I livelli superiori, invece, includono ripercussioni più serie. Fino appunto ad arrivare all’ultimo stadio, il settimo, che prevede un diretto coinvolgimento di cose e persone completamente indipendente dal reattore.
Quali sono i parametri di misurazione di questa scala di valori?
In realtà si tratta di una misurazione qualitativa e non quantitativa. Nel senso che è meramente descrittiva di uno scenario.
Come la scala Mercalli per i terremoti?
Il concetto è simile. La differenza sta nel fatto che la Mercalli effettua un’analisi del danno sismico ignorando la tipologia dell’oggetto colpito. I sette livelli di radiazioni, ai quali i centri studi nucleari fanno riferimento, si concentrano sulla specifica incidenza potenziale sulle persone. In questo modo, viene tratteggiato un quadro di insieme dell’incidente molto più realistico rispetto a quello della scala Mercalli nei terremoti. Tuttavia, questo è un metodo che non ci permette di conoscere il cosiddetto termine sorgente. Il caso di Fukushima è esemplare.
In che senso?
Il termine sorgente è un numero o una serie di numeri che indicano il quantitativo di radiazioni rilasciate secondo un modello specifico. Nella crisi nucleare giapponese questo parametro non è conosciuto. Di conseguenza, non si può essere più precisi. È possibile parlare di livello settimo. Senza poter indicare quanta radioattività sia stata dispersa all’esterno del reattore.
Ma a questo punto, qual è il rischio radiazioni nelle regioni fuori dal Giappone?
Bisogna chiarire un punto: il livello di radiazioni è misurabile ovunque. Anche qui in Italia, se uno volesse, potrebbe recuperare un dato ben preciso. Questo però non vuol dire che siamo in pericolo. Anzi, si può addirittura osservare che appena fuori dai confini dell’arcipelago nipponico, la crisi di Fukushima sta avendo una ricaduta ridotta. I valori registrati sono insignificanti. Il fatto che a dirlo siano osservatori indipendenti dalle autorità di Tokyo ci suggerisce che si tratti della verità. Siamo in una situazione di impatto ambientale ristretto in termini di area. Peraltro, secondo il ministero giapponese dell’educazione e della ricerca scientifica (Mext), i valori oltre Fukushima sembra che stiano rientrando nella norma.
E per quanto riguarda le contaminazioni generate da piogge e venti, quindi in regioni lontane dal Paese?
Anche questa è un’ipotesi di scarsa realizzazione. Gli studi dimostrano che si tratta di un allarme con un perimetro di dimensioni ridotte. Evidentemente gli osservatori locali sono in possesso di una serie di rilevamenti che noi non abbiamo. Questo permette loro di procedere con un’analisi più obiettiva e meno dettata dalla sensibilità collettiva.
Con il raggiungimento del settimo livello, si è portati a paragonare Fukushima con Cernobyl. Stessa intensità di radiazioni vuol dire disastro della medesima portata?
Come dicevo, è presto per dirlo. È vero, anche allora si arrivò a uno stadio così elevato di emissione. D’altra parte, la dispersione attuale sembrerebbe pari al 10% delle radiazioni del disastro di venticinque anni fa in Ucraina. Già questo dovrebbe ridurre gli allarmismi.
Pubblicato su liberal del 13 aprile 2011