Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘Estremo Oriente’ Category

«Quando si parla del livello settimo di radiazioni, si fa riferimento a una classificazione qualitativa che ha impatto sull’esterno». Francesco Troiani è membro della Commissione tecnica per la sicurezza nucleare e la protezione sanitaria delle radiazioni ionizzanti. È stato inoltre presidente della Nucleco, un’impresa partecipata dall’Enea e impegnata nella gestione integrata dei rifiuti e delle sorgenti radioattive. Intervistato in merito alla crisi di Fukushima, tende a non esporsi in previsioni allarmistiche. «Non siamo in possesso di rilevamenti abbastanza chiari per poter sostenere una qualsiasi critica nei confronti delle autorità giapponesi». La giornata, infatti, si chiude con le dichiarazioni di Tokyo sull’upgrade al settimo livello. Tuttavia, la stessa linea non è stata adottata dall’Aiea. «Già questa discrepanza di vedute impedisce una visione uniforme del fenomeno».
Presidente, cosa significa “livello settimo”? Come si può spiegare ai non addetti ai lavori?
Dobbiamo ricordarci che dal primo al terzo livello, si parla semplicemente di guasti e anomalie. Si tratta di casi in cui non vengono rilasciate radiazioni all’esterno del reattore. Se si vuole, si può parlare banalmente di incidenti. I livelli superiori, invece, includono ripercussioni più serie. Fino appunto ad arrivare all’ultimo stadio, il settimo, che prevede un diretto coinvolgimento di cose e persone completamente indipendente dal reattore.
Quali sono i parametri di misurazione di questa scala di valori?
In realtà si tratta di una misurazione qualitativa e non quantitativa. Nel senso che è meramente descrittiva di uno scenario.
Come la scala Mercalli per i terremoti?
Il concetto è simile. La differenza sta nel fatto che la Mercalli effettua un’analisi del danno sismico ignorando la tipologia dell’oggetto colpito.  I sette livelli di radiazioni, ai quali i centri studi nucleari fanno riferimento, si concentrano sulla specifica incidenza potenziale sulle persone. In questo modo, viene tratteggiato un quadro di insieme dell’incidente molto più realistico rispetto a quello della scala Mercalli nei terremoti. Tuttavia, questo è un metodo che non ci permette di conoscere il cosiddetto termine sorgente. Il caso di Fukushima è esemplare.
In che senso?
Il termine sorgente è un numero o una serie di numeri che indicano il quantitativo di radiazioni rilasciate secondo un modello specifico. Nella crisi nucleare giapponese questo parametro non è conosciuto. Di conseguenza, non si può essere più precisi. È possibile parlare di livello settimo. Senza poter indicare quanta radioattività sia stata dispersa all’esterno del reattore.
Ma a questo punto, qual è il rischio radiazioni nelle regioni fuori dal Giappone?
Bisogna chiarire un punto: il livello di radiazioni è misurabile ovunque. Anche qui in Italia, se uno volesse, potrebbe recuperare un dato ben preciso. Questo però non vuol dire che siamo in pericolo. Anzi, si può addirittura osservare che appena fuori dai confini dell’arcipelago nipponico, la crisi di Fukushima sta avendo una ricaduta ridotta. I valori registrati sono insignificanti. Il fatto che a dirlo siano osservatori indipendenti dalle autorità di Tokyo ci suggerisce che si tratti della verità. Siamo in una situazione di impatto ambientale ristretto in termini di area. Peraltro, secondo il ministero giapponese dell’educazione e della ricerca scientifica (Mext), i valori oltre Fukushima sembra che stiano rientrando nella norma.
E per quanto riguarda le contaminazioni generate da piogge e venti, quindi in regioni lontane dal Paese?
Anche questa è un’ipotesi di scarsa realizzazione. Gli studi dimostrano che si tratta di un allarme con un perimetro di dimensioni ridotte. Evidentemente gli osservatori locali sono in possesso di una serie di rilevamenti che noi non abbiamo. Questo permette loro di procedere con un’analisi più obiettiva e meno dettata dalla sensibilità collettiva.
Con il raggiungimento del settimo livello, si è portati a paragonare Fukushima con Cernobyl. Stessa intensità di radiazioni vuol dire disastro della medesima portata?
Come dicevo, è presto per dirlo. È vero, anche allora si arrivò a uno stadio così elevato di emissione. D’altra parte, la dispersione attuale sembrerebbe pari al 10% delle radiazioni del disastro di venticinque anni fa in Ucraina. Già questo dovrebbe ridurre gli allarmismi.

Pubblicato su liberal del 13 aprile 2011

Read Full Post »

di Antonio Picasso

Le dinamiche politiche della crisi libica si spostano in Estremo oriente. Ieri, il summit sino-francese di Pechino si è concentrato quasi unicamente sul futuro del Paese nordafricano. Il premier cinese, Hu Jintao, ha accolto il presidente Nicolas Sarkozy con lo stesso atteggiamento di rigidità assunto dai suoi diplomatici fin dall’inizio dei raid. La Cina ha ribadito che Odissey Dawn, così come si sta sviluppando, è andata oltre le direttive della risoluzione 1973 dell’Onu. Ha sottolineato che la no fly zone era stata imposta per proteggere i civili e non per agevolare gli attacchi della Nato. Insomma, Pechino, di fronte al più agguerrito degli attuali nemici di Gheddafi, non si è spostata dalle sue posizioni iniziali. Diverso è il comportamento della controparte. Il semplice fatto che il summit non sia andato a monte lascia pensare che Sarko sia disponibile a ridimensionare la sua aggressività. Parigi non ha rilasciato dichiarazioni di qualsiasi sorta. Forse l’Eliseo sta valutando come ricucire lo strappo coi cinesi. A costo anche di ridurre i raid. Nell’incontro a due, deve aver pesato l’elemento petrolio. Total nutre interessi sia in Nord Africa sia in Cina. È probabile che il presidente francese stia vivendo ore di profonda incertezza, nel capire quali contratti della major transalpina siano più importanti, se quelli di lungo periodo in Cina, oppure se le concessioni libiche da rivedere con il futuro governo. Va ricordato, peraltro, che anche la partecipata di Pechino, la Cnpc, è presente nel Paese nordafricano. Il che complica ulteriormente i rapporti fra le due potenze.
Come contraltare all’eventuale apertura di Parigi, adesso è Londra a mostrare nuovamente i muscoli. Sempre ieri, il premier britannico, David Cameron, ha palesato l’ipotesi di armare i ribelli. Anche in questo caso, si tratterebbe di un’iniziativa non contemplata dal documento delle Nazioni Unite. Inoltre, rappresenterebbe solo una conferma di quello che, pare, stia già accadendo. Proprio i Sas – le forze speciali di Sua Maestà – starebbero combattendo a fianco degli insorti ormai da un mese.
Silenzio invece sull’altra sponda dell’Atlantico. Barack Obama, dopo l’ultimo discorso all’elettorato, rassicurante sul fatto che quello in Libia non sarebbe un conflitto, crede di aver compiuto il proprio dovere. In nome della democrazia e della trasparenza.
In realtà, l’intera attività diplomatica spalmata nelle diverse cancellerie delle superpotenze mondiali perde completamente di significato se non viene risolto il “problema Gheddafi”. Vale a dire se non si stabilisce cosa farne del rais. Stabilita l’impossibilità di eliminarlo mediante operazione chirurgica, come avrebbero voluto molti operativi sul fronte libico, restano due soluzioni. O che Gheddafi cada in battaglia. Ma così si ritornerebbe alla carta appena esclusa. Con il rischio, inoltre, di assurgere a martire. Non resta che l’esilio. Il problema è dove un ex rais libico, al potere da 42 anni e con solidi legami con tutti i regimi più dispotici del mondo, potrebbe essere “parcheggiato” senza che torni a dare fastidio?
Per come si è comportato finora, è chiaro che Gheddafi non sia Mubarak, il quale, una volta isolato dai suoi stesi uomini di fiducia, è riuscito a garantirsi un buen retiro a Sharm el-Sheihk. Una volta messo sotto scacco sul campo di battaglia – chissà quando? – il colonnello non potrà restare in Libia. L’idea che venga catturato e appaia di fronte a tribunale internazionale è comunque rischiosa. Potrebbe essere trattato come un prigioniero di guerra. Difficile farlo figurare come un genocida alla stregua di Milosevic. E se fosse lui stesso a fuggire?
È l’ipotesi che sta prendendo piede. Certo, la fuga sarebbe implicitamente agevolata dai ribelli e dalla Nato. Entrambi potrebbero far finta di non aver visto nulla. A quel punto, Gheddafi potrebbe riparare presso governi amici in Africa, oppure in America latina. In questi giorni è stata avanzata l’ipotesi del Ciad. Francamente questa è la meno plausibile. Per tre motivi: è dalle piste di questo Paese che partono molti dei Mirage francesi che stanno bombardando gli uomini del colonnello. Gheddafi è un leader rancoroso e non dimenticherà lo sgarbo di Ndjamena. Il Ciad, inoltre, è da anni in aperto contenzioso con il vicino Sudan per la questione Darfur. Gheddafi, assurgendo a paciere in seno all’Unione africana, ha più volte preso posizione in favore di Karthoum. Infine, il Paese vanta la più estesa riserva di uranio al mondo. Questo significa la presenza di investitori stranieri che giungono da tutto il mondo – soprattutto Cina e, ancora una volta, Francia – accompagnati dai loro contractor. Non si voglia che Gheddafi, una volta scappato dalla Libia, possa incontrare un commando di dubbia provenienza! Del resto, nemmeno gli alleati continentali del ex rais, Omar al-Bashir in Sudan e Robert Mugabe dello Zimbabwe, possono garantirgli un esilio sereno all’ombra della sua tenda beduina. L’intera Africa, soprattutto alla luce delle rivolte al nord e in Medioriente,  è sinonimo di instabilità e di improvvise fiammate rivoluzionarie. Al giorno d’oggi, non c’è dittatura che possa certificare la propria sopravvivenza su un lungo periodo. È plausibile che questo Gheddafi l’abbia intuito.
Al contrario, il Venezuela di Hugo Chavez appare più stabile. Fra i due leader l’amicizia personale non è incrinata da precedenti negativi. Inoltre, il presidente venezuelano ha più volte offerto il proprio aiuto, sul piano diplomatico, in queste settimane di crisi. Caracas, quindi, potrebbe far comodo a Gheddafi. L’ex rais alla ricerca di una sede straniera da dove continuare la sua lotta personale. Magari non più in termini militari. Per quanto non è detto che si ritorni ad avere un Gheddafi che sponsorizza attività terroristiche in Occidente. L’importante però per il colonnello è salvare se stesso e garantire un futuro al suo clan, attraverso quelle risorse economiche non ancora congelate. Proprio Chavez, nell’invettiva anti-occidentale di martedì, parlava di un «furto di 200 miliardi di dollari, perpetrato da questo nuovo colonialismo a spese della Libia». Da notare che, solo cinque mesi fa, i due regimi avevano creato un fondo di investimento comune, della somma di 1 miliardo di dollari. Per Gheddafi, in proporzione a quanto gli è stato confiscato, questo è nulla. Si tratta comunque di un capitale iniziale. Il contenitore di questi progetti c’è già e si chiama “Fondazione afro-latinoamericana di sostegno per Gheddafi”. Mancano solo le idee. Arriveranno da Tripoli?

Pubblicato su liberal del 31 marzo 2011

Read Full Post »

E’ ufficiale: Mohammed ElBaradei, premio Nobel per la Pace ed ex Direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ha annunciato di volersi candidare alle presidenziali egiziane. Come riporta il quotidiano isrealiano Haaretz, ElBaradei – uno dei principali esponenti dell’opposizione moderata – dovrà affrontare fra gli altri anche il Segretario generale uscente della Lega Araba, Amr Moussa, dato come chiaro favorito dai primi sondaggi. Lo stato maggiore della forze armate, che detiene il potere dopo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, ha fissato le prossime elezioni politiche per il mese di giugno: le presidenziali dovrebbero svolgersi entro le sei settimane successive.

Read Full Post »

La concorrenza tra due superpotenze non si può risolvere sempre con una guerra. Una valida alternativa può essere quella di convertire l’antagonismo in una competizione economica, la quale può sfociare in partnership. L’esempio di Francia e Germania, a suo tempo, ha insegnato al resto del mondo che, nell’impossibilità di eliminarsi reciprocamente, tanto vale prendere un sentiero di crescita comune. È quanto sta accadendo oggi tra India e Cina, i due giganti asiatici temuti dall’Occidente e che, alle volte, sono stati interpretati come un monolite sullo scacchiere internazionale. Negli ultimi anni, si è parlato erroneamente di “Cindia”. Un termine coniato per indicare il percorso parallelo intrapreso dai due Paesi nella conquista dei mercati internazionali e per l’acquisizione di una maggiore influenza geopolitica.
In questi giorni è in corso la visita ufficiale del premier cinese, Wen Jiabao, nella capitale indiana. Stando alla tipologia di accordi e alla loro corposità, si può effettivamente pensare che Cina e India siano due grandi alleati, entrambi proiettati nel Terzo millennio con una marcia in più rispetto agli altri Paesi. Wen è arrivato a Delhi con al seguito 400 imprenditori suoi connazionali. Si tratta della delegazione economica più folta tra tutte quelle che hanno visitato il subcontinente nel 2010. Nell’arco di quest’anno, il premier indiano, Manmohan Singh, ha ricevuto il britannico Cameron e il francese Sarkozy. I due leader europei sono stati accompagnati rispettivamente da 40 e 60 rappresentanti di industrie loro connazionali. Successivamente, il presidente Usa, Barack Obama, è giunto con 215 delegati dell’imprenditoria d’oltre atlantico. Tutti businessman interessati a investire in India, oppure a firmare accordi di importazione da questo Paese. Nulla di paragonabile, però, con l’esercito cinese presente in questi giorni a Delhi.
Wen non si recava in India ormai da cinque anni. Da allora i rapporti economici fra i due Paesi si sono consolidati. Gli scambi tra le due economie, che registrano il più alto tasso di crescita al mondo, sono stati pari a 42 miliardi di dollari nel 2009 e dovrebbero raggiungere i 60 miliardi di dollari nell’anno fiscale in corso – in chiusura a marzo 2011 – con un’eccedenza di 20 miliardi di dollari a favore della Cina. Nella prospettiva del lungo periodo, Cina e India vorrebbero diventare le due superpotenze economiche incontrastate a livello mondiale. Tutto questo entro il 2050. Visti i numeri, non è escluso che il progetto riesca. I due Paesi, complessivamente, sono abitati da 1,2 miliardi di lavoratori. Una manodopera che costituisce quasi il 50% del mercato mondiale del lavoro. Peraltro, il semplice fatto che a New Delhi quest’anno siano sbarcati oltre 700 imprenditori stranieri – in accompagnamento alle visite ufficiali, quindi escludendo i viaggi d’affari privati – può suggerire come il contesto industriale indiano rappresenti attualmente il Klondike dell’economia globale. E in questa, la Cina – che fa da apripista per tutto ciò è innovazione – vi si trova perfettamente.
Nello specifico degli accordi firmati in questi giorni tra Cina e India, si è arrivati a un volume di affari superiore ai 16 miliardi di dollari. Energia, telecomunicazioni, scambi marittimi e partnership nei più diversificati settori dell’estrazione. Questi i comparti interessati. L’India, inoltre, riceverà derrate di prodotti made in China utili per dare un’ulteriore accelerata alla sua economia.
«Nel mondo c’è posto per entrambi», aveva detto lo stesso Wen alla fine di ottobre. Una dichiarazione, questa, volta a scacciare gli spauracchi occidentali di provocazione, orientati a soffiare sul fuoco delle rivalità sino-indiane. Da Washington a Londra, da Parigi a Tokyo – magari includendo Berlino, Mosca e Roma – a nessuno giova un asse asiatico così forte e dinamico. Di conseguenza, l’idea di ravvivare gli attriti fra i due Paesi appare un’arma utile per tutti. Per questo è plausibile che il leader cinese abbia cercato di sedare gli animi. Da una parte, ha sottolineato le buone relazioni in corso con Delhi. Dall’altra, ha svilito le speranze dell’Occidente di vedere i due Paesi nuovamente in contrasto.
Le parole di Wen, però, devono essere prese con le molle. Due colossi come Cina e India sono destinati a gareggiare fra loro. E in questo chi ha cercato di provocare ulteriori scintille ha colto nel segno. Il solo fatto che il governo di Pechino debba preoccuparsi di sfamare 1,3 miliardi di cittadini e che quello di New Delhi debba fare altrettanto per 1,1 miliardi di indiani fa pensare che le parole del primo ministro cinese siano conciliatorie, per quanto di facciata. Due Paesi come la Cina e l’India non possono che essere in competizione reciproca. Una loro alleanza, com’è quella attuale, è volta a contrastare gli avversari comuni. A questo proposito è interessante segnalare una nota di colore. Recentemente tra le due capitali asiatiche è stata installata una linea telefonica “rossa”, per un diretto collegamento Singh-Wen. Un canale di comunicazione preferenziale e riservatissimo simile a quello, originario della guerra fredda e che unisce Washington a Mosca. Cina e India alla stregua di Russia e Usa: avversari sì, ma sempre con il telefono a portata di mano.
Detto questo, sul piano globale, i due Paesi sono visti come un tutt’uno.  Più per paura, del resto, che per realismo dei fatti. Non è un caso che Delhi e Pechino si contendano la conquista delle risorse minerarie africane, delle ricchezze petrolifere in Medio Oriente e soprattutto la primazia del commercio mondiale di massa. Il manufatto indiano sta raggiungendo quello cinese, in termini di bassi costi di produzione e distribuzione tentacolare sui mercati occidentali. Certo, in questo caso la Cina è una potenza affermata. Tant’è che il saldo della bilancia commerciale fra i due, quest’anno, si chiuderà 20 miliardi di dollari in suo favore. Tuttavia, l’India ha dalla sua parte la grinta della nazione emergente – molto più veloce della macchina produttiva cinese – una forza lavoro di 467 milioni di persone e soprattutto l’alleanza con il Giappone. Quest’ultimo, storico competitor di Pechino, sta attraversando una fase di seria difficoltà economica e ha trovato nell’India un sostegno per la rinascita. Entrambi, quindi, si sono coalizzati per contrastare Pechino.
Passiamo ai dossier aperti sul fronte diplomatico. Il Kashmir per l’India e il Tibet per la Cina sono due motivi di frizione. Il primo resta il punto debole per il governo Singh. Soprattutto quest’anno, che è stato testimone dei sanguinosi scontri a Srinagar e nelle altre città del Jammu-Kashmir. Per Delhi, l’emancipazione di questo stato federale, abitato da una maggioranza musulmana che vede nel Pakistan (alleato della Cina) un punto di riferimento ideologico e politico, non è fonte di discussione. Del resto, a Pechino non può che tornare vantaggioso osservare come la potenza indiana si sia arenata sugli argini dell’Indo e non sappia, effettivamente, come risolvere il problema kashmiro. Speculare è la questione tibetana. Non è un caso che il Dalai Lama risieda in esilio in India. New Delhi guarda con cauto favore la causa dell’indipendenza del Tibet proprio per tenere sotto scacco Pechino. Si tratta di  una guerra di manovre, connotata unicamente da tatticismi e che trova origine negli accadimenti di cinquant’anni fa.
Nel 1962, Cina e India si sono fronteggiate in uno dei conflitti più ad alta quota della storia. Motivo dello scontro: il controllo delle regioni di Aksai Chin e Arunachal Pradesh, a sud del Tibet. Il cessate il fuoco firmato il 21 novembre dello stesso anno aveva decretato sul campo la vittoria cinese. De facto, il contenzioso è rimasto aperto. Da allora, nessuna delle due potenze ha ipotizzato di riprendere in mano la questione. Proprio perché, quando due Paesi diventano così forti, come lo sono oggi la Cina e l’India, è meglio evitare lo scontro armato.
Infine c’è un ultimo punto, in cui però la Cina parte avvantaggiata. A New Delhi manca solo un’ultima carta per dichiararsi superpotenza mondiale a tutti gli effetti. Per quanto sia una carta squisitamente formale, è proprio quella che ne attesta la qualifica. L’India non è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È una potenza nucleare. È una forza demografica ed economica senza paragoni. Meglio ancora: è la democrazia più grande del mondo. Tutto questo, però, non ha alcun peso, di fronte all’ambasciatore cinese che rappresenta il suo governo al Palazzo di vetro di New York. Lì, per confutare Wen Jiabao, è difficile che l’India trovi un suo spazio. Uno spazio che proprio la Cina tende a non lasciare scoperto.

 Pubblicato su liberal del 17 dicembre 2010

Read Full Post »

Era previsto che il vertice annuale dell’Asean, l’associazione che riunisce le nazioni del Sud est asiatico (Association of South-East Asian Nations), si svolgesse secondo la routine delle edizioni precedenti. L’evento, al contrario, si è trasformato nel ring della crisi fra Cina e Giappone. La capitale vietnamita di Hanoi in questi giorni ospita il summit che si concluderà all’inizio della prossima settimana. L’unico punto in agenda, che avrebbe potuto creare un sobbalzo di tensioni, era la discussione in merito alle prossime elezioni in Birmania, previste il mese prossimo. Per questa occasione, la giunta militare di Myanmar ha previsto la scarcerazione di Aung San Suu Kyi. La comunità internazionale, quindi, ne ha approfittato per incentivare un inizio di democratizzazione del Paese. «L’Asean e le Nazioni Unite sono d’accordo sul bisogno di una transizione credibile e democratica e di una riconciliazione nazionale in Birmania», ha detto il segretario dell’Onu, Ban ki-Moon, anch’egli presente in Vietnam.
Gli avvenimenti delle ultime settimane, però, hanno visto protagonisti tutti gli Stati membri dell’organizzazione, ma soprattutto alcuni Paesi inseriti come partner osservatori. Lo tsunami che ha colpito l’Indonesia, per esempio, si è abbattuto politicamente anche sui tavoli del vertice. Il governo di Jakarta è stato costretto a ritirare la sua delegazione, in seguito allo stato di emergenza dichiarato nell’isola di Sumatra. Nel frattempo ad Hanoi si sta discutendo sulle possibilità di aiuti da stanziare in favore delle popolazioni colpite.
Tuttavia, sono state le questioni relative ai governi osservatori ad aver dato un rilancio di visibilità all’attuale incontro dell’Asean. Prima fra tutte la crisi fra Cina e Giappone. Da oltre un mese infatti, i due governi hanno alzato un reciproco muro di silenzio. Le frizioni, evidentemente covate da troppi anni, si sono riaccese in seguito alla confisca di un peschereccio cinese, da parte della guardia costiera di Tokyo, dopo che il primo era stato sorpreso – e quindi speronato – a veleggiare vicino alle isole Senkaku, nel Mar della Cina Orientale. L’arcipelago, attualmente sotto la giurisdizione nipponica, è conosciuto anche con il nome di Diaoyu o Pinnacle Islands. Il nome cambia a seconda se si preferisca ricordare il suo trascorso coloniale sotto l’Impero del Sol levante, oppure degli Stati Uniti. L’area è oggetto di una decennale contesa dei governi di Tokyo, Pechino e Taipei. I tre vi reclamano la piena giurisdizione, in quanto ambiscono a sfruttarne i ricchi giacimenti off shore. L’incidente di metà settembre ha spinto le autorità cinesi a ritirare il proprio rappresentante diplomatico in Giappone. La decisione ha provocato esplicite preoccupazioni soprattutto negli Stati Uniti. Washington può desiderare tutto fuorché una crisi fra i suoi due più importati interlocutori dell’Estremo oriente. Non è un caso che, ieri, il segretario di stato Usa, Hillary Clinton, anche lei presente ad Hanoi, abbia tirato un sospiro di sollievo nell’assistere alla stretta di mano fra i due ministri degli esteri, cinese e giapponese. I due capi della diplomazia, rispettivamente Yang Jiechi Seiji Maehara, hanno avuto uno scambio di opinione in merito all’incidente che ha fatto da casus belli e con la previsione di facilitare l’incontro dei loro primi ministri. L’eventualità che Wen Jiabao e Naoto Kan potessero incrociarsi proprio ad Hanoi è rimasta aperta fino alla tarda serata. Poi però, un portavoce di Tokyo ha dato l’ufficiale smentita. A questo punto, si può dire che la vicenda Senkku è sostanzialmente chiusa, ma non la crisi Tokyo-Pechino. La Clinton quindi ha cantato vittoria troppo presto. Le due nazioni non potranno certi dirsi ai ferri corti. Al tempo stesso la loro frizione, di cui non si vedono ancora gli spiragli, non è salutare in un momento di recessione globale e con il G20 di Seul alle porte. Lo stesso deve aver pensato il presidente russo, Dimitri Medvedev, atterrato a fine giornata ad Hanoi.
D’altra parte, la crisi è stata interpretata come un’occasione utile per altri osservatori. Interessante è sottolineare come l’India si stia impegnando da qualche settimana a migliorare le relazioni con la Cina e a incrementare i rapporti economici con il Giappone. Sempre ieri, Wen ha osservato che il «mondo è abbastanza grande per le due superpotenze asiatiche». Di fronte al premier indiano, Manmohan Singh, il leader cinese si è impegnato a visitare New Delhi entro l’anno. Nel caso il viaggio si dovesse fare, si potrebbe parlare di un nuovo capitolo nella geopolitica dell’Asia. Un avvenimento le cui ripercussioni potrebbero raggiungere l’Occidente. D’altro canto, Singh non si è lasciato coinvolgere totalmente dall’entusiasmo del momento. È di lunedì scorso la notizia di una maggiore cooperazione fra l’India e il Giappone in materia di nucleare civile. I due governi, in funzione anti-cinese, stanno risaldando le relazioni economiche e partono da un settore strategico per lo sviluppo e il consolidamento delle rispettive posizioni sullo scacchiere internazionale. Inoltre, mentre Wen e Kan evitavano di stringersi la mano, Singh ha siglato un accordo con la Corea del Sud, sempre in ambito nucleare. È l’India quindi a cogliere l’opportunità di questa crisi asiatica.

Pubblicato su liberal del 30 ottobre 2010

Read Full Post »

Older Posts »