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Archive for the ‘Energia’ Category

Reportage dal Kashmir, pubblicato su Rivista Studio. Leggi

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«Quando si parla del livello settimo di radiazioni, si fa riferimento a una classificazione qualitativa che ha impatto sull’esterno». Francesco Troiani è membro della Commissione tecnica per la sicurezza nucleare e la protezione sanitaria delle radiazioni ionizzanti. È stato inoltre presidente della Nucleco, un’impresa partecipata dall’Enea e impegnata nella gestione integrata dei rifiuti e delle sorgenti radioattive. Intervistato in merito alla crisi di Fukushima, tende a non esporsi in previsioni allarmistiche. «Non siamo in possesso di rilevamenti abbastanza chiari per poter sostenere una qualsiasi critica nei confronti delle autorità giapponesi». La giornata, infatti, si chiude con le dichiarazioni di Tokyo sull’upgrade al settimo livello. Tuttavia, la stessa linea non è stata adottata dall’Aiea. «Già questa discrepanza di vedute impedisce una visione uniforme del fenomeno».
Presidente, cosa significa “livello settimo”? Come si può spiegare ai non addetti ai lavori?
Dobbiamo ricordarci che dal primo al terzo livello, si parla semplicemente di guasti e anomalie. Si tratta di casi in cui non vengono rilasciate radiazioni all’esterno del reattore. Se si vuole, si può parlare banalmente di incidenti. I livelli superiori, invece, includono ripercussioni più serie. Fino appunto ad arrivare all’ultimo stadio, il settimo, che prevede un diretto coinvolgimento di cose e persone completamente indipendente dal reattore.
Quali sono i parametri di misurazione di questa scala di valori?
In realtà si tratta di una misurazione qualitativa e non quantitativa. Nel senso che è meramente descrittiva di uno scenario.
Come la scala Mercalli per i terremoti?
Il concetto è simile. La differenza sta nel fatto che la Mercalli effettua un’analisi del danno sismico ignorando la tipologia dell’oggetto colpito.  I sette livelli di radiazioni, ai quali i centri studi nucleari fanno riferimento, si concentrano sulla specifica incidenza potenziale sulle persone. In questo modo, viene tratteggiato un quadro di insieme dell’incidente molto più realistico rispetto a quello della scala Mercalli nei terremoti. Tuttavia, questo è un metodo che non ci permette di conoscere il cosiddetto termine sorgente. Il caso di Fukushima è esemplare.
In che senso?
Il termine sorgente è un numero o una serie di numeri che indicano il quantitativo di radiazioni rilasciate secondo un modello specifico. Nella crisi nucleare giapponese questo parametro non è conosciuto. Di conseguenza, non si può essere più precisi. È possibile parlare di livello settimo. Senza poter indicare quanta radioattività sia stata dispersa all’esterno del reattore.
Ma a questo punto, qual è il rischio radiazioni nelle regioni fuori dal Giappone?
Bisogna chiarire un punto: il livello di radiazioni è misurabile ovunque. Anche qui in Italia, se uno volesse, potrebbe recuperare un dato ben preciso. Questo però non vuol dire che siamo in pericolo. Anzi, si può addirittura osservare che appena fuori dai confini dell’arcipelago nipponico, la crisi di Fukushima sta avendo una ricaduta ridotta. I valori registrati sono insignificanti. Il fatto che a dirlo siano osservatori indipendenti dalle autorità di Tokyo ci suggerisce che si tratti della verità. Siamo in una situazione di impatto ambientale ristretto in termini di area. Peraltro, secondo il ministero giapponese dell’educazione e della ricerca scientifica (Mext), i valori oltre Fukushima sembra che stiano rientrando nella norma.
E per quanto riguarda le contaminazioni generate da piogge e venti, quindi in regioni lontane dal Paese?
Anche questa è un’ipotesi di scarsa realizzazione. Gli studi dimostrano che si tratta di un allarme con un perimetro di dimensioni ridotte. Evidentemente gli osservatori locali sono in possesso di una serie di rilevamenti che noi non abbiamo. Questo permette loro di procedere con un’analisi più obiettiva e meno dettata dalla sensibilità collettiva.
Con il raggiungimento del settimo livello, si è portati a paragonare Fukushima con Cernobyl. Stessa intensità di radiazioni vuol dire disastro della medesima portata?
Come dicevo, è presto per dirlo. È vero, anche allora si arrivò a uno stadio così elevato di emissione. D’altra parte, la dispersione attuale sembrerebbe pari al 10% delle radiazioni del disastro di venticinque anni fa in Ucraina. Già questo dovrebbe ridurre gli allarmismi.

Pubblicato su liberal del 13 aprile 2011

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Gli scontri a fuoco in cui è degenerata la manifestazione indipendentista nella città kashmira di Srinagar, questa domenica, hanno provocato diciannove morti. Si tratta del più alto numero di vittime cadute in meno di 48 ore nel conflitto tra l’esercito indiano e i gruppi para militari impegnati nella lotta per l’emancipazione politica del Kashmir. Le forze di New Delhi hanno imposto un nuovo coprifuoco, dopo quello improduttivo di giugno. La decisione ha provocato l’ulteriore surriscaldamento degli animi, dopo che negli ultimi mesi le forze rivali sono tornate a confrontarsi. Il 2010 si sta rivelando quindi il peggiore tra gli ultimi cinque anni per l’instabilità della zona. Quella del Kashmir è una guerra in parte dimenticata, in parte volutamente non affrontata dalla comunità internazionale. I partner stranieri dei due Paesi direttamente coinvolti nella questione, India e Pakistan, si sono sempre dimostrati restii ad affrontare il problema, onde evitare di provocare la suscettibilità di uno contendenti, oppure di entrambi. Da sempre il Kashmir rappresenta il ring di un conflitto di bassa ma costante intensità. Per gli indiani si tratta del Jammu-Kashmir, Stato federale che fa capo a New Delhi. La giurisdizione pakistana riguarda a sua volta le province dell’Azad Kashmir e del Gilgit-Baltistan. La Cina dal canto suo mantiene il controllo sui distretti di Aksai Chin e Shaksgam, ma non è più stata coinvolta nelle rivalità della zona, dai tempi della guerra con l’India nel 1962. In sintesi le rispettive posizioni sono: per l’India la sua parte kashmira è integrata nella Federazione a tutti gli effetti, mentre il Pakistan dice che vorrebbe offrire maggiori poteri al governo delle sue due province, ma si tratta di parole che possono valere il tempo che trovano. Infine la Cina ha incluso l’Aksai Chin e lo Shaksgam nel Tibet. La regione inoltre è interessata dalla presenza di gruppi islamici appoggiati dal Pakistan, altri sostenuti dall’India e un terzo nucleo che rivendica la totale indipendenza da entrambi i governi e aspira alla nascita di un Stato kashmiro autonomo. Quest’ultimo rappresenta l’attuale bersaglio che le truppe di New Delhi stanno cercando di colpire. Fra tutti questi soggetti il nome che riscuote maggiore attenzione è quello di Lashkar-e-Toiba, il gruppo jihadista legato ad al- Qaeda e responsabile degli attentati di Mumbai nel novembre 2008. L’attacco, che provocò 175 morti e 308 feriti, fece da casus belli per la rottura definitiva dei rapporti India-Pakistan. La prima accusò Islamabad di essere in qualche modo coinvolta nelle attività del gruppo terroristico. Il Pakistan smentì seccamente. Anzi, replicò sostenendo che le forze talebane afghane erano a loro volta supportate dall’India. Lo scambio di denunce tra i due governi resta ancora una pagina aperta. Un’incrinatura che il presidente Usa, Barack Obama, in prima persona sta cercando in tutti i modi di bloccare. Negli ultimi vent’anni, il Jammu-Kashmir ha fatto da teatro per una serie di attentati contro le Forze armate indiane, di cui si calcola un bollettino complessivo di circa 100 mila morti. Proprio dall’inizio del 2010, questo stillicidio ha incalzato la sua cadenza, senza però che si pensasse a un intervento risolutivo. L’ultimo scontro a fuoco, a fine giugno e precedente a quello di domenica, ha provocato la morte di cinque militari indiani, fra cui un maggiore. Ne è emersa la decisione del Ministero della Difesa di New Delhi di imporre il coprifuoco in tutto lo Stato federato, com’è avvenuto l’atro ieri.
Una scelta cautelativa, revocata comunque dopo undici giorni, ma che al tempo stesso ha incrementato le proteste in seno alla maggioranza musulmana della popolazione locale (66% rispetto ai 10 milioni totali). Le critiche dell’opinione pubblica contro il regime di polizia che si sta radicando nel Jammu-Kashmir sono state messe a tacere attraverso una politica di censura a 360 gradi. La scorsa settimana, per esempio, i gruppi indipendentisti attivi sui social network on line sono stati criptati. Mentre le manifestazioni di piazza diventano sempre più difficili da organizzare. Quella di Srinagar infatti è degenerata in aperta violenza. In quelle terre lontane, la più grande democrazia del mondo ha assunto una linea repressiva particolarmente rigida, la quale mira a colpire la popolazione musulmana che vive sotto la giurisdizione di New Delhi. In modo tangenziale però viene danneggiato anche l’avversario pakistano. New Delhi sostiene che il Jammu- Kashmir sia l’epicentro delle attività terroristiche del fondamentalismo islamico di matrice pakistana, legato a ipotetici elementi deviati dei servizi di intelligence di Islamabad, l’Isi. Le autorità pakistane a loro volta sono convinte che l’India fornisca di armi i guerriglieri della minoranza indù, anch’essi particolarmente agguerriti. Non bisogna dimenticare infatti che sempre il Kashmir ha fatto da culla per lo sviluppo dell’induismo e del buddhismo. L’area quindi, vista da una prospettiva storica, risulta un punto critico e un crocevia di culture, civiltà e religioni. Nel corso dei secoli i popoli del Kashmir hanno saputo coabitare in pace, così come sono stati capaci di scontrarsi ferocemente. Nella discontinuità ciclica che è propria della storia, la congiuntura odierna si presenta palesemente negativa. Oggi infatti, per come è posizionato, il Kashmir appare strategico nel traffico illegale di armi e di droga da e verso il fronte di guerra afghano. Le comunità musulmane mantengono i contatti con i fratelli nell’Islam d’oltre frontiera e includono in questo network gli uiguri in Cina. C’è tuttavia un motivo che va oltre qualsiasi simbologia e che spiega l’attaccamento, da parte sia di Islamabad sia di New Delhi, a questi 200 mila chilometri quadrati di terra. La regione rappresenta il bacino idrografico principale dell’Indo, il fiume più lungo dell’India con i suoi 3 mila chilometri, per quanto nasca in Cina, attraversi il sub continente indiano proprio nel Jammu- Kashmir e infine si sviluppi nella sua massima capacità in Pakistan. Il suo bacino interessa 1,16 milioni di chilometri quadrati circa. Logico che i Paesi che sono bagnati da queste acque cerchino di accaparrarsi il massimo delle risorse a discapito di quelli vicini. Nel 1960 Islamabad e New Delhi firmarono un trattato che avrebbe permesso l’equo sfruttamento delle risorse d’acqua kashmire. Con l’obiettivo di creare una rete di di- ghe e centrali idroelettriche di utilizzo comune, venne fondata la Permanent Indus Commission.Vennero quindi realizzate la diga di Mangla, quella di Jehlum e l’ultima a Tarbela. Tutte e tre in Pakistan, ma solo la prima nel Kashmir. Dopo questa fase iniziale di apparente partnership e in seguito allo scoppio del secondo conflitto indo-pakistano (1965), la commissione si trasformò in un contenitore vuoto, utile solo per fare da cassa di risonanza delle frizioni tra i due colossi asiatici.
Da allora ciascun Paese ha deciso di portare avanti unilateralmente le proprie politiche di sfruttamento delle risorse naturali. Islamabad, in questo, ha trovato un valido sostegno economico e tecnico nel governo di Pechino, il quale ha esportato il suo modello di dighe gigantesche. Da una parte dovrebbero soddisfare la domanda di acqua per una popolazione che vive in un Paese prevalentemente arido, il Pakistan appunto. Dall’altra potrebbe rispondere alla richiesta di energia elettrica. La conseguenza più immediata però è stata quella della distruzione di un ecosistema di dimensioni gigantesche e della deportazioni di interi villaggi per lasciare spazio ai bacini creati dalle dighe. L’India ha fatto altrettanto, ma in un’area ridotta e in un territorio dove comunque risulta difficile installare grandi opere idrauliche. Negli ultimi mesi, i ripetuti summit fra India e Pakistan hanno fatto parlare di una distensione prossima ventura tra i due governi. Nulla potrebbe apparire più vantaggioso, per l’occidente ma soprattutto per gli Usa, se non la normalizzazione dei rapporti tra queste due potenze nucleari. Washington è alleata di entrambe e considera inammissibili le frizioni che permangono tra Islamabad e New Delhi. La ripresa del dialogo por porterebbe facilitare la risoluzione di molte criticità che si addensano in Asia centrale. L'”Af-Pak war” prima di tutto, ma anche la questione nucleare iraniana ne riceverebbero i giusti benefici. Si potrebbe addirittura prospettare un’asse contraria alle mire espansionistiche cinesi e agli interessi della Russia. Mosca e Pechino sono interessate all’accaparramento delle risorse energetiche del Pakistan, ad avere un interlocutore forte come l’India – senza per questo dover passare dall’Europa o dagli Usa – e mirano a sfruttare i grandi scali marittimi di entrambi i Paesi dell’Oceano indiano occidentale.
È per questo che il Cremlino si sta spendendo il meno possibile per la pacificazione dell’Asia centrale. A Medvedev e Putin non interessa la pacificazione della macro area. Un’indolenza simile si riscontra presso il governo cinese, il quale può soltanto guadagnare dagli attriti tra India e Pakistan. Bene, gli Usa vogliono mettere uno stop tutto questo. Al di là della guerra in Afghanistan, vista come la motivazione contingente per cui India e Pakistan continuano a scambiarsi provocazioni, sussistono problemi strutturali che impediscono la ratifica di un vero e proprio trattato di pace. Primo fra tutti il Kashmir appunto: la sua spartizione e lo sfruttamento delle sue immense risorse idriche. Nell’ottica del dialogo si è inserita la diretta mediazione di Obama. In aprile scorso, durante il summit internazionale sul nucleare che si è tenuto a Washington, il premier indiano, Manmohan Singh – peraltro nato in Pakistan nel 1932 e di etnia punjabi – si è incontrato con quello pakistano,Yousaf Raza Gilani. L’atmosfera di apertura riscontrata in quell’occasione aveva portato i due politici a fissare un summit bilaterale a giugno. Nel momento in cui questo si è tenuto però le tensioni erano già tornate a crescere. Di conseguenza le speranze di riconciliazione e di arrivare a un accordo sono scemate improvvisamente. Tuttavia la Casa Bianca, in entrambi i casi, ha concentrato le sue risorse perché Islamabad e New Delhi si confrontassero in merito alla questione afghana.Epicentro della crisi permanente invece è la definizione di un confine (Line on control, Loc) che separi il Kashmir indiano da quello sotto giurisdizione pakistana. Il mancato accordo sulla frontiera costituisce uno dei contenziosi più vecchi della storia contemporanea. Sono note a tutti le immagini dei militari indiani e pakistani che, ogni giorno, si impegnano in una sorta di danza di guerra lungo la Loc. Restando nel proprio territorio e indossando le uniformi da parata, i soldati di sentinella alla frontiera si ingegnano in pittoreschi equilibrismi e passi dell’oca, per mostrare al nemico la propria forza. Gesti ancestrali, questi, legati alle tradizioni tribali e claniche dei due Paesi. Dal 1947, anno della dichiarazione di indipendenza dell’India dall’Impero britannico – oltre che della sua separazione dal Pakistan – gli eserciti delle due nazioni si sono fronteggiati in tre guerre: nel 1948, nel 1965 e nel 1971. Nella generalità del problema quello che emerge è che l’indipendenza del Kashmir non converrebbe a nessuno. La Cina è sempre in prima linea a contrastare qualsiasi espressione di autodeterminazione di minoranze etniche e religiose. Tibet docet. Il Pakistan controlla il 37% del territorio kashmiro propriamente detto, ma ha dalla sua la gestione della maggioranza delle risorse locali. La sua posizione è ibrida quanto perniciosa. Al momento sta sfruttando le istanze indipendentistiche d’oltreconfine, con la chiara intenzione di creare altri ostacoli al governo di New Delhi.L’omogeneità etnica delle sue due province con il Jammu-Kashmir facilita questa linea.
Lo stesso si può dire per la diffusione dell’Islam. Al tempo stesso il governo pakistano non è capace di nascondere la sua vera tattica.Tant’è che se un giorno il Kashmir riuscisse davvero a diventare indipendente, o semplicemente a smuovere le coscienze straniere verso questa direzione, Islamabad sarebbe la prima a rimetterci. L’India, infine, è il soggetto bollato come “il cattivo di turno”, in seguito alla sua scelta di contenere allo stesso tempo le istanze autonomiste della regione e le derive jihadiste che si annidano nella stessa. L’errore che sta commettendo New Delhi è di sintetizzare due criticità in un solo problema. D’altra parte, il controllo del 43% del territorio e il fatto di essere l’unica democrazia stabile della regione, con una proiezione sull’Oceano indiano che, per esempio, Pechino non ha, sono due elementi che impongono a New Delhi un atteggiamento di alta responsabilità. Le grandi nazioni devono essere capaci di fare sacrifici e scelte impopolari, per il bene della ragion di Stato. L’India è quindi chiamata a compiere questo passo. Non tanto in favore del Kashmir o a beneficio del Pakistan. Piuttosto per la sua futura influenza nell’intera Asia centrale.   

Pubblicato su liberal del 3 agosto 2010

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La strategia russa di ricorrere al gas naturale come suostrumento di potenza è ormai confermata. Nemmeno questa querelle energetica aperta dal Cremlino contro la Bielorussia si minimizzare a un mancato accordo sul prezzo delle bollette. Al contrario si tratta di una manovra politica studiata a tavolino ormai più di cinque anni fa.
Ieri il Presidente russo, Dimitri Medvedev, ha accettato la proposta della Gazprom di tagliare le forniture di gas metano alla vicina Bielorussia per un iniziale quantitativo del 15%. Non è escluso però che, nelle prossime settimane, i rubinetti vengano chiusi per tre quarti della loro portata attuale. Di fronte a questa minaccia il Governo di Minsk ha replicato la sua intenzione di iniziare a saldare il debito. L’obiettivo di Mosca è, così facendo, cominciare ad assorbire il credito che vanta con la Repubblica a lei satellite. Secondo i calcoli di Gazprom si arriva a 200 milioni di dollari circa. D’altra parte, Minsk è in piena recessione economica e il regime autoritario di Alexandr Lukashenko non permette al Paese un rilancio produttivo. È facile quindi per la Russia prendere questo piccolo alleato per la gola, ribadendo la sua influenza nei confronti di tutte le ex Repubbliche sovietiche che, dopo il 1991, si sono dichiarate indipendenti.
Un’indipendenza sulla carta, però, come si è visto più volte con l’Ucraina, nel Caucaso e soprattutto in Asia centrale. La debolezza politica ed economica espone questi giovani Paesi agli appetiti dell’Orso del Cremlino, il quale ne approfitta e ribadisce all’Occidente che la “Nuova Russia” dev’essere tutt’altro che sottovalutata. C’è un metodo in questo percorso, nella cui ripetitività stagionale l’Unione europea si fa prendere puntualmente contropiede. Un circolo vizioso dal quale Bruxelles non riesce a svincolarsi.
Per Gazprom giugno è il mese di bilancio della stagione invernale appena conclusa. Tirate le somme, il suo Amministratore delegato, Alexei Miller, si reca al Cremlino per ottenere il vaglio di Medvedev e del Primo ministro, Vladimir Putin. Sulla base dei prezzi di mercato del gas naturale – attualmente intorno al 2,8 dollari al metro cubo – Mosca stabilisce unilateralmente gli importi di produzione, acquisto e vendita della materia prima. È una strategia di mercato che viene poi introdotta con l’arrivo dell’autunno successivo. Ogni volta si ripete la stessa scena: Gazprom decide il valore del gas estratto dai suoi giacimenti in Siberia, di quello comprato in Kazakhstan, Turkmenistan e Uzbekistan, infine impone la cifra maggiorata ai suoi primi e diretti acquirenti, Bielorussia e Ucraina. In un secondo momento apre i negoziati con l’Ue. Non appena i rispettivi governi di Kiev e Minsk ammettono di non poter affrontare simili spese, si apre una serie di trattative fittizie, che Mosca ha già vinto in partenza. La Gazprom infatti preferisce non negoziare sul prezzo, bensì sulla quantità fornita. L’accordo del 21 aprile scorso fra Medvedev e il suo omologo ucraino, Viktor Janukovic, ha previsto una riduzione del 30% delle forniture di metano dalla Russia all’Ucraina. Mosca ha inoltre ottenuto una proroga di 25 anni per l’usufrutto della base navale militare di Sebastopoli, nel Mar Nero. Questa era stata il quartier generale della Flotta meridionale della Marina sovietica e prima ancora per quella gli zar. Dopo il 1991, tutta la Crimea è passata sotto la giurisdizione di Kiev, ma alle sue banchine sono rimasti attraccati i sottomarini e le navi russe.
Dalla contrattazione in corso con Minsk, anch’essa favorevole solo per la Russia, il guadagno per quest’ultima è economico, ma altrettanto strategico. Finché Lukashenko resterà al potere, Mosca sa che la Bielorussia non sarà territorio di conquista per l’Occidente. La totale mancanza di democrazia e Stato di diritto escludono Minsk dal novero degli interlocutori della Nato e dell’Unione europea. Il Presidente Lukashenko non può far altro che mettersi sotto le ali protettive del Cremlino e sottostare alle sue decisioni. Da un lato quindi la Gazprom gli impone una quota di gas ridotto di quantità e a prezzi maggiorati. Dall’altro il territorio bielorusso assume il ruolo di un’appendice strategico-difensiva proiettata nel cuore dell’Europa centrale.
La strategia porta a un duplice guadagno. Per la Gazprom si tratta di un recupero di gas naturale, invenduto alla Bielorussia e quindi reindirizzabile su altri mercati, prevalentemente quello europeo. In questo modo la compagnia riesce a rispondere positivamente alle richieste di idrocarburi che le giungono da Occidente, per le quali le sue riserve in Siberia si stanno dimostrando insufficienti.
Eurogas, l’istituto statistico di Bruxelles responsabile del settore, ha calcolato che, nel 2009, la domanda di gas naturale dell’Ue è stata di 480 miliardi di metri cubi, a fronte di una disponibilità di Gazprom non superiore ai 510 miliardi. Stando così, siamo a un equilibrio di mercato che esclude per la compagnia di Stato russa la possibilità di dotarsi di una riserva in caso di emergenza. “È altamente probabile che in un futuro non molto lontano, la Russia non sarà in grado di rispondere positivamente alla richiesta di idrocarburi che le perviene dalle macchine industriali europee”, la dichiarazione è stata rilasciata a Vienna ancora all’inizio dello scorso anno da Alexandr Golovin, Ministro plenipotenziario del corpo diplomatico del Cremlino. A fronte di questo, è automatico che Gazprom preferisca vendere ai Paesi ricchi e non alla disastrata Bielorussia, andando a recuperare altri giacimenti fuori dai confini nazionali, vale a dire in Caucaso e Asia centrale. Anche qui i regimi sono quasi tutti assoggettati a Mosca. Questo è il secondo elemento di vantaggio per Medvedev. L’influenza politica che il Cremlino sta pazientemente ricostruendo intorno alla Santa Madre Russia ha come “ariete di sfondamento” la sua compagnia di idrocarburi.
A questo punto non si capisce per quale motivo Bruxelles possa sentirsi non coinvolta nel risiko moscovita che ieri ha annichilito la Bielorussia. È vero, le minacce del Cremlino restano limitate ai suoi satelliti, perché solo nei loro confronti Medvedev e Putin possono permettersi di comportarsi con prepotenza. Tuttavia l’espansionismo russo è sempre stato di carattere difensivo e volto a risolvere la sua paura di accerchiamento. È una psicosi che covava già nella Russia zarista, che si è mantenuta con l’Urss e resta tuttora in vita. Oggi i timori nutriti a Mosca hanno origine nella crescente influenza della Cina a est e nella volontà della Nato di intervenire come soggetto monolitico nelle varie criticità della comunità internazionale. Non è un caso che la Russia non abbia mai nascosto il proprio disappunto in merito al fatto che sia l’Alleanza atlantica a gestire la crisi afghana, su mandato dell’Onu. Di conseguenza, per fronteggiare gli avversari occidentali – Nato vuol dire Stati Uniti ed Europa – e quelli asiatici (Cina, ma anche India), Mosca non può che sottomettere i suoi satelliti con l’interminabile ricatto del gas. Di questo l’Ue deve esserne cosciente.

Pubblicato su liberal del 22 giugno 2010

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Non c’è pace per il Golfo del Messico. Ieri il Governo venezuelano ha annunciato – attraverso un originale “post” sul social network di Twitter – l’affondamento della piattaforma “Aban Pearl”, utilizzata per l’estrazione di gas naturale dai giacimenti off shore nel Mar dei Caraibi, di proprietà della compagnia di Stato “Petróleos de Venezuela Sa” (Pdvsa). Immediatamente il fatto è stato collegato con il disastro petrolifero che si è abbattuto poche centinaia di miglia più a nord e che sta martoriando il bacino del Missisippi e della Louisiana. Caracas tuttavia ha precisato che l’incidente intercorso di fronte alle coste del Paese non è della stessa portata rispetto a quello della “Deepwater Horizon”. I 95 operai impiegati sulla “Aban Pearl” sono stati messi subito in salvo. Inoltre l’esplosione pare non aver provocato alcun danno ambientale.
Da un punto di vista tecnico, un incidente su una piattaforma petrolifera ha un impatto devastante sulla natua. Di questo ne sono una testimonianza le immagini della marea nera che continua a espandersi nel Golfo del Messico. La fuoriuscita non controllata di gas naturale – quello che liquefatto  diventa Gnl – oppure l’esplosione di una piattaforma di estrazione, com’è nel caso della “Aban Paearl”, limita i danni all’aria. L’inquinamento resta contenuto a livello atmosferico e non coinvolge l’acqua. Il fatto inoltre che si sia registrata un’esplosione può far supporre un’immediata combustione del gas fuoriuscito. Siamo ben lontani quindi dalle conseguenze sulla natura che la British Petroleum e il Governo degli Stati Uniti stanno cercando di contenere. Del resto incidenti simili sono più legati ai giacimenti di carbone e non a quelli unicamente di gas naturale. L’ultimo del caso risale a dieci giorni fa, quando una fuga di metano nella miniera carbonifera di Raspadskaya, in Siberia, ha provocato 60 morti. La storiografia di incidenti relativi al Gnl è limitata all’inefficienza e alla rottura delle contutture di trasporto, non ai giacimenti in senso stretto.
Il problema è un altro. Possiamo fidarci della curiosa comunicazione su un social network da parte del Governo di Caracas, che non è famoso per la sua trasparenza politica?
È solo di martedì scorso la proposta del Presidente Usa, Barack Obama, di tassare di un centesimo al barile il petrolio estratto giornalmente, al fine di creare un fondo internazionale comune per intervenire in situazioni di emergenza come queste. L’iniziativa della Casa Bianca, a ben guardare, non ha riscosso la reazione sperata. Anzi, il silenzio da parte del mercato e degli altri governi interessati eventualmente al progetto è eccheggiato come un rifiuto implicito a questa idea di partnership mondiale. Del resto la proposta è apparsa tardiva e certo non si può pensare che il primo a sostenerla sia il Presidente venezuelano Hugo Chavez, da sempre nemico giurato di Washington.
D’altra parte la catena di coincidenze e quindi di incidenti in quest’ultimo mese deve, a questo punto, far riflettere. La domanda di idrocarburi a livello mondiale è in continua crescita. Secondo l’International Energy Outlook l’attuale consumo di petrolio è pari a circa 200 Btu (British thermal unit, l’unità di misura dell’energia utilizzata in Gran Bretagna e Stati Uniti), mentre quella di gas naturale supera di poco i 100 Btu. Lo stesso osservatorio però prevede che, da qui al 2025, i due indici subiranno rispettivamente un aumento del 25% e del 50%. Questo perché le locomotive industriali che trainano l’economia del mondo restano ancora eccessivamente legate al consumo di combustibili fossili. Cina, Europa, Giappone, India, Russia e Stati Uniti sono dei giganteschi motori a scoppio. La loro popolazione, i loro sistemi di riscaldamento e di trasporto, ma soprattutto di produzione industriale sono vincolati al petrolio e al gas naturale. Certo, le iniziative per l’affermazione di fonti energetiche alternative non mancano. Francia e Usa restano all’avanguardia nel settore nucleare. Altri Paesi europei, in primis Danimarca, Germania e Regno Unito, stanno cercando di potenziare la produzione nazionale di energia eolica e solare. Ma tutto questo non basta. È evidente che, con l’aumento demografico della popolazione mondiale e l’affermarsi di nuove realtà economiche – per esempio in America Latina e anche in Africa – implica l’urgenza di dettare una linea politica comune a tutti i Paesi produttori di idrocarburi, affinché garantiscano maggiori sicurezze per l’uomo e per l’ambiente. Al tempo stesso è richiesto uno sforzo maggiore per la ricerca di nuove fonti di energia.

Pubblicato su liberal del 15 maggio 2010

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