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Archive for the ‘PER STRADA’ Category

Mohammed el-Baradei ha covato sotto la cenere la sua candidatura alle presidenziali egiziane del prossimo anno già alla conclusione del suo mandato come Segretario Generale dell’Aiea alla fine del 2009. Ora il 67enne diplomatico egiziano, Premio Nobel per la Pace nel 2005, ha mostrato le carte. Il venerdì 26 marzo, el-Baradei si è presentato alla preghiera generale della Moshea di al-Azhar, il luogo di culto più importante del Cairo e faro dell’Islam sunnita. Quella mattina, nei vicoli di Khan el-Khalili, il suq adiacente allo storico edificio, era impossibile camminare. Un fitto cordone di Polizia in assetto antisommossa cercava di contenere una folla straripante di fedeli che pretendeva di entrare in moschea. Famiglie intere, venute da ogni quartiere della capitale, ma anche dalle campagne. Uomini vestiti alla maniera occidentale, altri con la tradizionale da jalabiya e poi donne, tante di loro indossavano il velo.
La scelta di el-Baradei di presentarsi in mezzo alla comune cittadinanza cairota dimostra la sua dimestichezza politica. Dopo tanti anni vissuti a Vienna alla guida dell’Agenzia nucleare dell’Onu, il diplomatico egiziano ha sentito la necessità di riacquistare la percezione dell’opinione pubblica nazionale. Come candidato alle presidenziali, doveva farsi vedere da quello che costituirà un potenziale elettorato alle urne del prossimo anno. Quale luogo migliore per el-Baradei se non la moschea di al-Azhar per fare la sua prima apparizione pubblica in qualità di candidato alle presidenziali? Qui ha seguito il sermone del nuovo Grande Imam, Ahmed el-Tayeb, subentrato da poco a Muhammad Sayyid Tantawy, in seguito alla morte di quest’ultimo. Ed è entrato in contatto con le più influenti sfere del clero musulmano nazionale. Una mossa di opportunismo politico, la sua, che dimostra come el-Baradei sappia quali siano i canali da percorrere per rinforzare il consenso all’interno del Paese e frapporsi come alternativa al clan Mubarak e alla Fratellanza Musulmana. Nel frattempo il suo ufficio elettorale sta aggiornando quotidianamente il programma di governo su Facebook.

Pubblicato su liberal dell’8 aprile 2010

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IL CARIO – Alla fine di marzo, dopo quasi un mese di assenza, il Presidente egiziano, Hosni Mubarak, è tornato in patria. La sua lontananza dal potere è stata dettata dalla necessità di sottoporsi a un delicato intervento chirurgico in Germania, che ha richiesto una prolungata convalescenza. Effettivamente delle precarie condizioni di salute del “faraone” – 82 anni e al potere da 1981 – se ne parlava da tempo.
Il suo rientro nel Paese è stato seguito in diretta dalla televisione di Stato come un evento nazionale. Ad attenderlo all’aeroporto di Sharm el-Sheikh c’era la pletora di militari e dirigenti dei Servizi di sicurezza del Paese. Nell’osservare la scena si vedeva un Mubarak rigido, che passava in rassegna il suo Stato Maggiore e i vertici dell’establishment politico egiziano. Il rais nascondeva a fatica la debolezza fisica. Al suo fianco c’era la moglie Suzanne, non il figlio Gamal, designato quasi con certezza come il suo erede alla Presidenza. L’assenza di quest’ultimo potrebbe essere stata dettata da motivi di sicurezza. Proprio perche Gamal è il principe ereditario in pectore, è probabile che si sia preferito evitare che padre e figlio apparissero in pubblico nello stesso posto, rappresentando quindi un solo target per un potenziale attentato.
In questo lungo e preoccupante periodo di assenza, l’Egitto ha pregato per il suo rais e ora sembra aver tratto un sospiro di sollievo. Adesso però è giunto il momento di affrontare il nodo della successione a Mubarak. Il problema riguarda la sopravvivenza del regime, la stabilità interna del Paese e gli equilibri di tutto il Medio Oriente. Il prossimo anno l’Egitto sarà chiamato a votare per il nuovo Presidente. Nel 2006, la vittoria plebiscitaria di Mubarak era prevista. Sebbene furono in molti a criticarla. Le opposizioni interne, dai partiti laici alla Fratellanza Musulmana, denunciarono brogli sui quali nessuno in Occidente si impegnò a fare luce. Lasciando da parte eventuali giudizi morali, si è sempre preferita la solidità politica garantita dal Governo di Mubarak piuttosto che un’accelerazione lungo il cammino verso un Egitto democratico. Il realismo politico suggerisce che i tempi e le modalità di evoluzione del mondo arabo siano differenti dai nostri. Su questi si può intervenire quindi solo con la massima precauzione.
Ora però il futuro dell’Egitto è diventato un problema. Cosa accadrebbe se improvvisamente il “faraone” non fosse più in grado di guidare il Paese? Nel 2011 sarà ancora giustificabile dalla Ragion di Stato una tornata elettorale che sia la fotocopia di quella del 2006? L’ennesima candidatura di Hosni Mubarak, vista l’età e le sue condizioni fisiche, rischia di apparire sconveniente. Il passaggio di consegne a Gamal potrebbe essere una soluzione. In Siria ha funzionato. Proprio quest’anno, ricorre il decimo anniversario della morte di Hafez el-Assad. A suo tempo circolò il timore di un crollo del governo baathista, perché il figlio della “volpe di Damasco”, sulle cui spalle era caduta la leadership del Paese, appariva come un personaggio estraneo al proscenio politico mediorientale. In dieci anni tuttavia, Bashar el-Assad è riuscito a sopravvivere agli attacchi dall’interno e alle difficoltà incontrate dalla Siria in sede internazionale. L’attuale leader di Damasco ha dimostrato doti politiche inaspettate. Adesso sta traghettando il Paese nel Terzo Millennio, con quella velocità che è propria appunto ai Paesi mediorientali e che spesso in Occidente non viene compresa. Lo stesso potrebbe accadere in Egitto. Tuttavia quanti sono disposti a scommetterlo?
Gamal Mubarak ha ricevuto l’appoggio delle Forze Armate e dei servizi di sicurezza, il Gis. Vale due tra le lobby politiche più influenti del Paese. In questo sicuramente hanno svolto un ruolo chiave gli oltre 1,6 miliardi di dollari di dollari versati dagli Stati Uniti nelle casse dello Stato egiziano dal 2008 a oggi, per il miglioramento dei sistemi di difesa nazionale e dell’apparato anti-terrorismo, in competizione con Arabia Saudita e Israele, ma anche per contenere la corsa iraniana agli armamenti. Washington ha intuito che il suo endorsment a Gamal debba essere indirizzato a quei centri di potere che possono far sopravvivere il regime. Quest’ultimo però sembra aver ridotto sensibilmente la sua vena populistica, iniettata ancora da Nasser negli anni Cinquanta, e il machiavellismo di cui invece Sadat era stato poi l’artefice. Ne è un sintomo concreto il fatto che Mubarak abbia preferito atterrare a Sharm el-Sheikh, piuttosto che all’aeroporto della capitale, quindi lontano da quello che è il vero Egitto. Oggi il regime trova una concreta somiglianza con le condizioni di vita del Cairo. Questa megalopoli di 21 milioni di abitanti appare incapace di contenere le incertezze del futuro. L’intero Paese del resto, osservandone direttamente la vita quotidiana, lascia trasparire sintomi di debolezza, che potrebbero suggerire una sua involuzione.
Le trasformazioni che l’Egitto sta attraversando si ripercuotono sul tenore di vita della cittadinanza come sui suoi costumi. Certo, in termini macroeconomici, il Paese vanta una solidità sopra la media rispetto all’intero mondo islamico e all’Africa. Il settore turistico, quello bancario, in parte il comparto energetico e le entrate che pervengono dal pedaggio navale del Canale di Suez dimostrano saldi nettamente positivi. In Egitto sono presenti oltre 200 istituti di credito, fra nazionali e esteri, fra i quali alcune banche italiane. Le entrate della zakat – la “decima” imposta dal Corano ai fedeli musulmani – e i ricchi investimenti della minoranza copta (12% circa degli 80 milioni di abitanti del Paese) costituiscono una sensibile circolazione monetaria all’interno del Paese. Da qui la facilità per ogni cittadino a ottenere mutui a tasso agevolato e prestiti in temi ristretti. Gli investimenti nel settore petrolifero e la recente scoperta di riserve di gas hanno fatto rientrare l’Egitto nel circuito energetico, dopo un periodo in cui si temeva l’esaurimento delle sue risorse e quindi una progressiva marginalizzazione.
In controtendenza il costo della vita sembra salire in modo incontrollabile. Il Governo è vincolato da trattati internazionali che gli impongono un surplus di esportazione, soprattutto delle derrate alimentari. Ne consegue che la popolazione è costretta a pagare generi di prima necessità, prodotti dalla sua stessa agricoltura lungo le rive del Nilo, con un prezzo maggiorato e insostenibile. La modernizzazione, tecnologica e sociale, del settore industriale si è limitata ad alcuni comparti. Visitando una delle più importanti concerie del Cairo, si scopre che gli operai sono soggetti a rischi inimmaginabili secondo i nostri standard. Fuori dalla capitale, la mancanza di infrastrutture e l’indigenza mettono in luce alcune zone d’ombra dove l’economia appare ancora di sussistenza.
In ambito culturale è evidente l’incremento del sentimento religioso da parte dell’opinione pubblica. Il velo per le donne egiziane è diventato un capo di abbigliamento altamente diffuso, soprattutto tra le generazioni più giovani. Le ragazze lo indossano nelle scuole, ma anche in contesti più frivoli, come un semplice ristorante, dove a sua volta è sempre più difficile trovare bevande alcoliche. I canali televisivi privati, a loro volta, trasmettono i film occidentali previa un’accurata censura, che impedisce la visione anche di scene sostanzialmente caste, come quella di un bacio. Si tratta di un puritanesimo diffuso, lontano dall’identità laica del regime, bensì aderente ai precetti dell’Islam.
Da tutto questo allo stato di insicurezza sociale il passo è breve. Una realtà dissidente e caratterizzata da derive fondamentaliste com’è la Fratellanza Musulmana – nata proprio in Egitto – trova ossigeno in questo Egitto nascosto. Lontano da una middle class eterogenea – composta da liberi professionisti, impiegati e operai specializzati – vive un sottoproletariato che è facile preda della propaganda antigovernativa. Ma l’Egitto è una terra di immigrazione: dal Corno d’Africa, dal Sudan e da Gaza. In tutti i casi si tratta di potenziali bacini di proselitismo per quei soggetti politici intenzionati a sovvertire l’ordine costituito – eventualmente ricorrendo alla violenza – senza però saper offrire un’alternativa all’attuale regime.
Il Governo del Cairo in questo senso ha sì definito un’efficace politica di prevenzione del terrorismo. Presso i singoli villaggi dell’Alto Nilo, i posti di blocco sono frequenti e i controlli serrati. Questo grazie anche agli investimenti nella Difesa che giungono dall’estero. Il divieto di coltivazione nei campi adiacenti alle strade è un’ulteriore misura di cautela, che dovrebbe impedire potenziali imboscate da parte di gruppi armati contro nel auto. A ben guardare però, gli strumenti in dotazione alle Forze Armate non appaiono all’altezza delle aspettative. Le uniformi in disordine e le armi scadenti sono di per sé un sintomo di trascuratezza di un intero esercito. Questo lascia in sospeso il dubbio su dove venga indirizzata la maggior parte del denaro a disposizione del Governo.
Inoltre si sa che per combattere i mali sociali non è sufficiente la repressione o la minaccia preventiva delle armi. E tanto meno la propaganda ossessiva. Nel Sud del Paese i ritratti del Presidente sono affissi ad ogni lampione della luce. Ma questo monito alla popolazione di ossequiare il rais non ha portato i risultati sperati. Anzi, simili misure sul lungo periodo rischiano di essere controproducenti. Mentre sul fronte delle riforme e del processo evolutivo verso la democrazia il Governo egiziano si è inceppato. Da questo emerge il dubbio sulla fattibilità di un passaggio indolore di consegne tra Hosni Mubarak e suo figlio. Nel Paese come all’estero si teme che la Fratellanza Musulmana possa ottenere un consenso troppo elevato e che essa stessa non saprebbe come gestire. Di conseguenza, mentre il “clan Mubarak” sembra non presentare più lo smalto di una volta e il movimento islamico appare fossilizzato su posizioni radicali, la figura di Mohammed el-Baradei subentra come un’alternativa. L’ex Segretario generale dell’Aiea dispone di una positiva celebrità all’estero e ha dimostrato di essere sufficientemente spregiudicato di fronte agli elettori. Anche in questo caso però, se el-Baradei vincesse, quanto le conseguenze di un cambiamento così repentino gioverebbero al Paese? E al Medio Oriente in generale?
Le presidenziali sono fissate per il novembre 2011. In 18 mesi Mubarak dovrà essere capace di dimostrare di poter governare ancora, oppure di passare lo scettro al figlio. Gamal a sua volta è chiamato a esporre le sue qualità di leader e di traghettatore del Paese verso la democrazia. Per questo non basta la nomina formale che gli è giunta dall’alto di capo della Segreteria politica del Partito Nazional-democratico (Pdn). Alla Fratellanza Musulmana tocca invece il compito di offrire un programma di governo aperto al pluralismo e capace di rigettare qualsiasi legame con il fondamentalismo jihadista. El-Baradei infine bisogna che confuti la convinzione del tertium non datur che appartiene agli scenari politici dei Paesi arabi: o dittatura o regime islamico. Al contrario si chiede che anche la sua candidatura sia una dimostrazione della sostenibilità della democrazia in Egitto. Basterà un anno e mezzo perché tutte queste ipotesi si mettano a sistema fra loro?

Pubblicato su liberal dell’8 aprile 2010

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IL CAIRO – Il canto del Muezzin viene strozzato dai clacson della miriade di macchine che ingorgano le strade del Cairo. Khan-el-Khalili è il cuore di questa matassa di umanità, culture, inquinamento e caos. Khan-el-Khalili è la carta di identità del Cairo. Qui si conservano le più antiche tradizioni, islamiche e copte, ma anche egizie, romane, bizantine e arabe di una metropoli di 21 milioni di anime. Il brulicare di gente che acquista e vende si attenua solo dopo tante ore dal calare del sole. Questa sera, la sorte ha voluto che nel cielo brillasse uno spicchio di Luna crescente. Una Mezza Luna… Abbiamo attraversato le strade del Cairo rischiando a ogni angolo di essere investito. Qui il modus guidandi è molto personale e il pedone non ha alcuna influenza sulla circolazione. Ci siamo tuffati nel suq attratti dai suoi odori: profumi di spezie, intervallati da zaffate nauseabonde di immondizia abbandonata ai margini degli edifici. Immediatamente siamo stato identificati e inglobati nella frenesia commerciale del mercato. La nostra presenza veniva trasmessa di bancarella in bancarella, come un segnale d’allerta. “Attenzione! Due uomini occidentali curiosi”. Era questo il messaggio passato. Così ad ogni nostra sosta, per guardare o fotografare, c’era già pronto un sorriso, una mano tesa e l’ovvio tentativo di venderci qualcosa. Qualsiasi cosa. Al nostro sguardo scintillante, per l’emozione che trasmetteva il posto, raccoglievamo reazioni altrettanto animate. “Assalam aleykum”, dicevo io ai venditori, i quali rispondevano con aperta cordialità. Poi, una volta esaurito il magro vocabolario di arabo, la conversazione si trasformava in quel linguaggio che è comune a tutti i popoli del Mediterraneo. Una sorta di Esperanto fatto di gesti, parole chiave comprensibili un po’ a tutti e sforzi sinceri affinché l’interlocutore capisca quel che si vuol dire. A Khan-el-Khalili non si può restare muti, impassibili alla marea di vita in cui si è fagocitati. Nella sua parte più vecchia, quella oltre la piazza principale e fuori dal circuito turistico, ci sono alcune moschee. Sono in serie, una a fianco dell’altra. In una vi abbiamo trovato rifugio, alla ricerca di ossigeno da quel brulichio di venditori e curiosi che si era creato intorno a noi. Tolte le scarpe e io un po’ timoroso per i calzini variopinti che sbucavano dai pantaloni, siamo avanzati verso il Mihrab – il punto di riferimento per pregare verso la Mecca. Un Imam ci ha accolto insegnandoci il saluto locale: battendosi l’un l’altro la spalla destra e toccandosi con gli avambracci. Poi un sorriso e l’ospitalità, in un gioiello di sincretismo religioso. La moschea era stata prima una chiesa copta, ma dai capitelli che mi è parso rintracciarvi anche stili architettonici precedenti. L’arco a sesto acuto mi ha fatto ricordare il gotico delle nostre cattedrali. Un parte del tetto con le travi a vista mi ha suggerito che l’edificio sarebbe potuto essere ancora più antico. Effettivamente fuori una targa faceva risalire le strutture più antiche all’XI secolo. Vale a dire quando gli arabi erano arrivati in Egitto ormai da cinquecento anni. “Convivenza”. È la parola che mi è passata per la testa, mentre ero con il naso all’insù ammaliato da quel capolavoro di coabitazione. “Convivenza passata”, ho aggiunto immediatamente dopo, con un senso di désespoir e ricordandomi i giorni difficili che stiamo vivendo; che il Medio Oriente sta vivendo! A Khan-el-Khalili i meccanismi dell’orologio si sono bloccati. La storia si è trasformata lentamente in una tradizione culturale radicata. Il suq di oggi era lo stesso di un secolo fa, ma anche di due o tre. Poco lontano dal Cairo, oltre Suez, a Gerusalemme, altri ingranaggi politici si sono arrestati in modo ben più preoccupante. Tra le botteghe del più antico mercato del Cairo penso al processo di pace e a come il Medio Oriente stia tornando a essere una bomba a orologeria. Ma forse lo è sempre stata. Tutto ciò sotto lo sguardo terso di Cassiopea e della Luna: testimoni da sempre delle piccole storie degli uomini.

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Distolgo lo sguardo dai ciottoli millenari. Il cielo è terso. L’azzurro che domina Gerusalemme è forse l’unica cosa per cui tutti qui sono d’accordo. Nessuna città al mondo, quando è sereno, ha questa luce. È una magia, una chimica condivisa solo con Roma. Uno spettacolo naturale che però si intravede solo a spicchi, intervallato da tetti, lamiere di copertura, archi rampanti. Un reticolato di ingegnosità e bisogni che ha scritto la storia urbanistica della Città vecchia. Guardando in alto si rischia di inciampare. I gradini sono tanti. Di misure sempre diverse. E poi si arriva ai muri. Alle barriere. Ai confini. Il quartiere armeno è diviso da quello greco-ortodosso, il quale ben si distingue dalla zona cattolica, a sua volta separata dal suq musulmano, che è infine a tenuta stagna rispetto a dove vivono gli ebrei. Passando da un quartiere all’altro si sentono i profumi di spezie differenti. Perché nemmeno la cucina in questa città è una sola per tutti. Ogni negozio espone fieramente il suo Cristo, la Khamsa, o la Stella di David. Ogni spicchio di terra è un’identità a se stante, con le sue bandiere. Mi viene in mente che anni fa avevo visto una foto della casa dell’ex Premier israeliano Ariel Sharon. Nella Città vecchia appunto. Sulla facciata dell’edificio datato almeno quattro secoli troneggiavano un lunghissimo Talléd e la Menorah. Un messaggio per tutta la cittadinanza: “Qui siamo arrivati e qui resteremo!” Perdendomi tra i vicoli, vedo di persona una scena simile. La casa di un ebreo con la Bandiera israeliana issata solidamente sul tetto e bene in vista per chiunque. Tutt’intorno un reticolato che ingabbia terrazzi, balconi, finestre.
Sicurezza prima di tutto! Sicurezza al prezzo della libertà di tirare un filo tra un palazzo e l’altro per stendervi il bucato. Già questo sarebbe un gesto di unione. Sicurezza che impedisce alle donne di parlarsi da una finestra all’altra. Sicurezza al prezzo del confronto.
Gli amici israeliani li stimo per la loro incrollabile tenacia. Il Paese che hanno creato dal nulla è una vera democrazia. E su questo nulla da obiettare. Da sessant’anni sono in guerra con il mondo attorno, che non è riuscito a rigettarli in mare. Bisogna essere dei mastini per reggere un confronto che sembra non avere un ultimo round.
Ma… Perché c’è un ma!
Ma quel discorso: prima la sicurezza e poi la pace, quella separazione tra le due cose proprio non mi torna. Non riesco a capirla.
Per difendere i loro diritti gli israeliani hanno costruito muri e alzato barriere. Hanno fatto bene. Perché grazie a queste il 2009 è stato il primo anno nella storia del Paese senza attentati suicidi. Ma si sono messi in gabbia anche loro. Loro, il popolo d’Israele che, proprio per la sua storia “errante”, di ghetti e lager, dovrebbe averne le tasche piene di palizzate e robe varie. Anzi, dovrebbe essere il primo a cercare un dialogo, un confronto, un accordo. Invece no. Anche gli israeliani, come tutti i mondi racchiusi in Gerusalemme, hanno alzato un muro. Forse quello più alto.

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“Gerusalemme! Gerusalemme!” È con il titolo del romanzo di Dominique Lapierre e Larry Collins che riprendo questo diario. Sono tornato nella città tre volte santa, ma settanta volte sette (o pure più) martoriata dalla storia. Sono arrivato al seguito dell’Associazione Parlamentare di amicizia Italia-Israele. Un’occasione per conoscere un’altra Israele, l’ennesima sfaccettatura di questo Paese. Un’opportunità per rientrare nei Territori e capire lo sguardo che si scambiano ebrei, musulmani e cristiani, arabi e israeliani. “Questo è un Paese fatto di muri”, mi dice l’amico Bruno Poggi, anche lui al seguito della delegazione. Cammino di nuovo tra i ciottoli scivolosi della città vecchia. Li osservo nelle loro svariate dimensioni. Quelli più grandi sono di epoca romana. Poi c’è il lastricato dei crociati. Infine arrivarono gli ottomani. Infine… Di Gerusalemme si potrebbe conoscere la storia e leggerne l’anima già dalla sola osservazione della pavimentazione all’interno della città vecchia. O forse no. Non basterebbe affatto. Perché ne resterebbe escluso il Montefiori, Me’a She’arim, al-Quds and so on. Passo dopo passo mi accorgo che la Città Santa è come una spiaggia, dove ininterrottamente vi si schiantano ondate di civiltà. Come le onde: mai una uguale all’altra. Guerre, separazioni, odi risorti e odi sopiti, tentativi di pace e prove di convivenza. Per poi essere buttato tutto all’aria improvvisamente. Perché basta un colpo di pistola per scatenare di nuovo l’inferno. Quindi punto e a capo. E si innalzano muri. Muri che emergono da scavi archeologici, scavi che fanno arrabbiare qualcuno perché suonano come una provocazione. Una dissacrazione della loro piccola fetta di rispettabilissima fede. Muri baciati dalla natura, tra sole, vento e pioggia. Testimoni di pulsioni violente e collettive, per le quali uno ha tutto il diritto di chiedersi: “Ma perché? Perché diavolo non riuscite a stringervi le mani e ragionare una buona volta? Dopo sessant’anni!” Poi ti rendi conto che le risposte a queste domande già le sai, che troppe sono le ragioni. Mai termine fu tanto contradditorio quanto questo, specie se legato alla guerra non stop tra israeliani e palestinesi. E allora inforchi di nuovo gli occhiali da cronista, o da analista che sia, oppure sa semplice viaggiatore che associa colori, profumi e luci del posto che visita alla cultura in cui si è immerso. E qui di cultura si affoga. Si muore.

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