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Archive for the ‘Clima’ Category

Reportage dal Kashmir, pubblicato su Rivista Studio. Leggi

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Due sono le cose da sottolineare nell’ennesimo messaggio di Osama bin Laden di oggi: la tempistica e la novità di contenuti. Il capo di al-Qaeda è ricomparso con un messaggio su internet proprio in coincidenza con il World Economic Forum di Davos e la Conferenza dei Paesi donatori dell’Afghanistan in corso a Londra. È come se Bin Laden avesse voluto dire la sua, prendendo parte a entrambi i summit e confermando quanto valore attribuisca alla comunicazione e all’immagine della propria organizzazione terroristica. Pur restando nascosto, pur lasciando in sospeso il fatto se sia effettivamente ancora vivo e se sia lui a continuare questa campagna mediatica, Osama bin Laden rimane astutamente “sul pezzo”, cercando di ottenere il massimo, della visibilità come un qualsiasi Capo di Stato o di Governo.
Novità anche per i contenuti. Novità interessanti. Perché con fare messianico, bin Laden si è rivolto per la prima volta al mondo intero, attribuendo le responsabilità della crisi finanziaria in corso e dei problemi climatici unicamente al sistema capitalistico made in Usa. Una considerazione un po’ semplicistica e riduttiva, questa. Ha inneggiato al boicottaggio del dollaro e di tutti i prodotti americani. E così ha confermato come anche al-Qaeda sia un prodotto della globalizzazione. Anzi, un “no global product”. Non è un caso che bin Laden & Co. siano riusciti furbescamente a sposare la causa della pirateria in Corno d’Africa. Così facendo hanno attribuito un valore politico a un mero fenomeno di criminalità, con l’evidente obiettivo di mettersi di traverso al commercio internazionale tra Occidente e Oriente.
Un’ultima cosa. In questo messaggio Osama ha citato nuovamente l’ex Presidente Usa, George Bush. Segno, questo, che tra il capo di al-Qaeda e il vecchio inquilino della Casa Bianca resta aperto un duello tutto personale. D’altra parte è pure la conferma che tra Bush e Obama ci sia continuità e che per la più “popolare” organizzazione terroristica degli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti continuino a essere il nemico numero 1.

 

Intervento trasmesso da R101

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L’hanno battezzata “l’isola dimenticata”: Haiti, uno dei gioielli naturali del Mar dei Caraibi. Il terremoto che l’ha devastata però ha tolto il velo sul disastro umano in cui versa da oltre quarant’anni questo Paese centro-americano e del quale nessuno si è mai curato. Le contraddizioni haitiane sono tante. Da una parte la natura lussureggiante che coabita con un tasso di povertà spalmato sull’80% dei suoi 10 milioni di abitanti. Il 54% di questi si trova in condizioni di “povertà assoluta”. Dall’altra l’arretratezza che convive nella stessa isola con la Repubblica dominicana, sotto la cui giurisdizione spetta la parte orientale del territorio.

Si rileva invece una certa omogeneità nella classificazione pessimistica del Paese da parte della stragrande maggioranza degli osservatori internazionali. Nel 2008, la Banca mondiale ha calcolato un +1,3% di Pil rispetto all’anno precedente. Questo dopo un breve periodo di crescita abbastanza sostenuta, iniziato nel 2004 ma interrotto improvvisamente. Le Nazioni Unite a loro volta hanno relegato Haiti al 148 esimo posto nella loro classifica di povertà, su 179 Stati. L’agricoltura costituisce oltre il 30% della produzione nazionale, mentre all’industria è assegnato un peso quasi irrilevante nel quadro generale del Paese. Da segnalare la pressoché totale assenza di infrastrutture sul territorio nazionale. Si aggiungono poi un tasso di inflazione incontrollabile (+14,4% nel 2008) e un debito estero che non riesce ad essere ridotto in quanto Haiti praticamente è esclusa dai circuiti del mercato globale. Solo nel 2009, il Fondo Monetario Internazionale ha spinto affinché al Paese venisse accordato uno sconto di 1,2 miliardi di dollari in modo da concedergli quella boccata di ossigeno necessaria per la ripresa economica. Tuttavia il terremoto non farà altro che bloccare questa opportunità. Altrettanto drammatici sono gli indici sociali. Consultando il World Factbook della Cia, le aspettative di vita media per tutta la popolazione si arrestano ai 61 anni di età. La disoccupazione è pari al 70%, mentre solo poco più della metà degli abitanti dell’isola risulta aver ricevuto un’istruzione di base.

Sul piano della sicurezza Haiti è pervasa da fenomeni di corruzione e criminalità diffusa. I pochi stranieri che decidono improvvidamente di avventurarsi tra le sue bellezze naturali rischiano di essere sequestrati da bande armate presenti su tutto il territorio. Una pratica, questa, adottata in molti contesti di arretratezza, dove il guadagno facile è spesso collegato con le attività illecite.

Come sempre però il nucleo del problema è di tipo politico. Fin dagli anni Sessanta, Haiti ha vissuto una serie continua di Colpi di Stato. Nel 2004, dopo la cacciata di Jean Bertrand Aristide, è salito al potere René Préval, attuale Presidente avversato da un’opposizione armata che trova sostegno nelle bidonville della capitale, Port-au-Prince, e degli altri centri urbani del Paese. All’instabilità radicata, si affianca l’atteggiamento di schietta indolenza da parte della classe dirigente nazionale nel tentare di risollevare le sorti del Paese. È esemplificativo come, prima ancora del taglio del debito estero deciso dall’Fmi l’anno scorso, ben 9 miliardi di dollari investiti da partner stranieri per aiuti umanitari restassero e restino ancora in giacenza nelle casse dello Stato. Sembra che Haiti non intenda sfruttare le occasioni che le vengono messe a disposizione per affrancarsi da questo stato di minorità.

Per far fronte al problema della sicurezza interna e in appoggio al governo Préval, le Nazioni Unite hanno dato vita nel 2004 alla United Nations Stabilization Mission in Haiti (la cui sigla francofona è “Minustah”). È una missione di peacekiping composta da 9mila Caschi blu, comandati dal generale brasiliano Carlos Alberto dos Santos Cruz, ma dalle caratteristiche particolari. Il suo obiettivo infatti è “ riportare l’ordine e la legge nel Paese, in vista di libere e democratiche elezioni e proteggere il personale delle Nazioni Unite impegnato in progetti umanitari”. L’incarico è peculiarmente di polizia invece che militare. D’altra parte l’isola non è soggetta a uno stato di guerra. Fino a ieri la presenza di Minustah era programmata fino alla prossima metà di ottobre di questo stesso anno. Il terremoto che adesso ha aggravato le sorti del Paese fa pensare che la presenza della comunità internazionale verrà incrementata. Si prevede infatti un immediato soccorso da parte delle grandi potenze delle Americhe, Stati Uniti e Brasile in primis.

 Pubblicato su liberal del 14 gennaio 2010

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Ieri a Roma gli occhi dei turisti e gli obiettivi dei fotografi erano puntati sullo striscione di protesta affisso da Greepeace sul Colosseo. Un gesto per sensibilizzare l’opinione pubblica, non solo quella italiana, sul summit di Copenaghen in corso in queste settimane. Al di là delle provocazioni, la vera attenzione si concentra sulla conduzione del vertice e sull’eventualità che, stavolta, da un consesso internazionale possa nascere una proposta realizzabile sul clima e su una distribuzione più equa delle risorse energetiche.

È la cosiddetta “bozza danese” in particolare a essere al centro delle discussioni e che ha suscitato numerose polemiche. Dalle indiscrezioni pubblicate in anteprima dal Guardian, il documento attribuirebbe in favore dei “Paesi ricchi” il doppio delle quote pro capire di Co2 di quelle a disposizione dei “Paesi poveri”. Se così fosse, da qui al 2050, le aree più industrializzate del pianeta gioverebbero di una facilitazione, nell’ambito delle emissioni di anidride carbonica, che invece sarebbe negata alle economie emergenti. Oltre a questi problemi tecnici, che da soli rischiano di incagliare il summit, lo scenario politico non permette ancora di esporsi in previsioni ottimistiche.

La “bozza danese” infatti perde totalmente di valore di fronte alla proposta della Commissione europea di concedere 2 miliardi di dollari l’anno nel triennio 2010-2012 ai Paesi in via di sviluppo. Oggi e domani sono attesi a Bruxelles i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri Ue, ai quali la Commissione intende sottoporre il suo documento per averne il nulla osta. L’Ue vuole anche arrivare a Copenaghen con una proposta di taglio delle emissioni di anidride carbonica dal 20 al 30%. Quelle comunitarie sono tutte buone intenzioni, che perdono di valore se si osservano le dinamiche retrostanti. È naturale che l’Unione Europea, con la Presidenza van Rompuy fresca di nomina, desideri arrivare nella capitale danese con un pacchetto di proposte favorevoli ai Paesi emergenti supportate dall’unanimità dei suoi membri. Tuttavia quello dell’unità nell’Unione – si passi il gioco di parole – si sta dimostrando anche questa volta un sogno. Il progetto di Bruxelles ha già ottenuto l’ok da parte dei governi come quello britannico e quello danese, che hanno avviato da anni una politica energetica fatta di fonti rinnovabili ed energie alternative. Nella sola Danimarca, per esempio, il 23% del fabbisogno energetico nazionale è prodotto da fonte eolica. Londra, a sua volta, grazie al progetto “Wave hub” ambisce ad arrivare al 40% della produzione della sua energia da fonti a bassa emissione. Tempo stimato del piano: entro il 2020. Logico che sistemi Paese tanto all’avanguardia non abbiano avuto problemi ad avvallare il documento Ue. Le rimostranze di Parigi hanno invece tutt’altra origine. La Francia è il secondo Paese al mondo per energia nucleare dopo gli Stati Uniti. Su questo comparto però gravano le critiche, palesemente pregiudiziali degli ambientalisti. Arrivare a Copenaghen con un piano di energia alternativa impostata sul nucleare sarebbe quindi solo controproducente. Da qui la reticenza nelle dichiarazioni transalpine: “La Francia sarà generosa nell’aiutare le economie in crescita”. Questo il commento reso pubblico dal governo Fillon. Stessa posizione di cautela da parte italiana. Il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, si è limitato a dichiarare: “L’Italia deciderà quello che deciderà l’Ue”.L’aperta contrarietà alla proposta di Bruxelles invece è venuta dalla Germania, la quale “non intende staccare un assegno in bianco senza sapere la destinazione dei fondi”. Berlino è stata seguita a ruota dai nuovi membri dell’Ue, Polonia in testa, le cui economie non possono permettersi un impegno così gravoso e immediato.

Le tattiche interne all’Ue infine si scontrano con le posizioni di Cina e Stati Uniti, veri decisori del problema. In un complicato ragionamento che solo il governo di Pechino riesce a far apparire come sostenibile, il vice Direttore della Commissione statale per lo sviluppo e la riforma, Xie Zhenhua, ha fatto capire che il suo Paese potrebbe accettare di ridurre del 50% delle emissioni di Co2 entro il 2050 solo a condizione che le nazioni sviluppate aumentino il loro target entro il 2020. In questo modo ha fatto capire che i Paesi occidentali dovrebbero accelerare sul controllo delle emissioni sul medio periodo, lasciando che la Cina lo faccia sul lungo. Questo significa che i trent’anni di gap sarebbero per Pechino un’occasione per mantenere un livello di produttività svincolato dal controllo dell’inquinamento emesso. Peraltro non si capisce per quale motivo improvvisamente la Cina si sia sfilata dalla categoria delle nazioni sviluppate, declassandosi a quella di economia emergente. Forse perché così spera di ottenere l’appoggio di quei Paesi che sono davvero poveri.

Nel frattempo gli Stati Uniti non hanno ancora sciolto la riserva. Forse non lo faranno nemmeno oggi, visto che Obama è a Oslo a ritirare il Nobel per la pace. Lapidaria e inequivocabile la dichiarazione dell’India: “Nessun accordo a tutti costi”.

Pubblicato su liberal del 10 dicembre 2009

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Il summit di Copenaghen rischia di diventare la nuova passerella per un’uscita all’estero del Presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. La notizia non è ancora certa, tuttavia il fatto che ieri sia stata la televisione di Teheran a parlarne è sufficiente per farci pensare: sì, anche Ahmadinejad andrà a Copenaghen. La sua partecipazione non è certo un problema. Anzi, è indice dell’esistenza effettiva di un rapporto diplomatico fra l’Iran e la comunità internazionale, che travalica la questione nucleare. Bensì è sui contenuti di un suo eventuale intervento che si può storcere il naso. In occasione del summit della Fao a Roma nel 2008, Ahmadinejad, invece di parlare degli squilibri della distribuzione delle risorse alimentari fra i Paesi ricchi e poveri, si accanì contro gli Stati Uniti e Israele, rispolverando le vecchie metafore del “Grande e Piccolo Satana” che dominano il mondo e delle loro lobby che impediscono lo sviluppo della maggioranza della popolazione mondiale. Il rischio è, come a Roma lo scorso anno, che si ripeta un incidente diplomatico di questo genere. Del resto si può negare a un Capo di Stato di presenziare a un summit internazionale come quello di Copenaghen? Evidentemente no. A questo punto gli altri governi coinvolti potrebbero approfittare dell’occasione e decidere, una volta per tutte, come approcciarsi con il regime iraniano. La presenza del suo leader non va impedita, ma sfruttata per procedere sulla questione nucleare e arrivare a un risultato concreto.

Pubblicato su liberal del 10 dicembre 2009

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