Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘Siria’

Le Nazioni unite temono la presenza di bambini soldato tra le fila dei ribelli che combattono contro Assad. Lo ha dichiarato Radhika Coomaraswamy, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i minorenni e i conflitti armati. La diplomatica cingalese ha comunque ammesso che si tratta di un’informazione ancora da verificare e che richiede «il recupero di ulteriori dati». Che l’opposizione al regime nascondesse un’identità dubbia già si sapeva. I soldi e le armi vengono da chissà dove. Forse dal Golfo, se non da più lontano. La sua stessa linea politica è di difficile definizione. Recentemente il patriarca melchita, Gregorio III Laham, ha detto che solo 1.500 uomini dell’esercito regolare hanno disertato e si sono uniti ai manifestanti. È vero, la comunità cristiana della Siria è da sempre una colonna del Baath. Specie la Chiesa greco cattolica. Tuttavia, è altrettanto fuori di discussione il fatto che questa guerra civile non si limiti a essere una tenzone interna tra buoni (oppositori del regime) e cattivi (Assad & Co). Sono molti gli interessi affinché il conflitto cuocia a fuoco lento magari per qualche anno. Ragione primaria è che se la Siria dovesse chiudere il suo capitolo con la rivoluzione, quest’ultima andrebbe ad abbattersi su altri governi. Magari quello giordano. Oppure ancora più a sud. Per esempio nel Golfo. Scarsa trasparenza e brutalità da ambo le parti. È questo il binomio notevole perché della Siria si continui a parlare senza raggiungere un dunque. Il che vuol dire massacri di cui è difficile identificare il responsabile e notizie ambigue. I bambini soldato danno un contributo disumano a un conflitto che non si vuole dimenticare, ma che al tempo stesso è meglio non risolvere.

Read Full Post »

Finalmente un reportage! Ieri all’Ostello Bello di Milano, Antonella Appiano ha presentato il suo libro “Clandestina a Damasco”, Castelvecchi editore. L’iniziativa portava la firma di Associazione Capramagra, pimpante Onlus attiva nella cooperazione internazionale.

Finalmente un reportage! Dicevamo. Perché il libro della Appiano è la testimonianza diretta di quattro messi passati tra i vicoli di Damasco e non solo, a seguire in prima persona la rivoluzione siriana. Quattro mesi di clandestinità, travestimenti, ma soprattutto di fatti visti con i propri occhi e subito raccontati. Poche storie. Quando si è bersaglio di ignoti cecchini che sparano dai tetti, oppure pedinati dalla Mukhabarat, l’analisi va nel dimenticatoio. E il libro nasce da sé. Ovvero sulla base dei fatti. Il giornalista ha poco da perdere tempo con riflessioni sullo spirito del mondo. In Siria c’è una guerra civile e bisogna raccontarla, punto.La Appianofa questo. Fa la giornalista. Vede, ascolta, scrive.

“Clandestina a Damasco” è semplice. Neanche 150 pagine, senza una nota o una bibliografia – sapete? Quelle che già alle tesi di laurea fanno mettere perché così si ingrassa inutilmente il volume. A che scopo ridondare però?La Appianoriporta quel che vede. Riporta, reporter: c’è assonanza, chissà come mai…

Per chi vuol sapere quel che c’è scritto nel libro, il consiglio è presto detto: vada in libreria, dodici euro e cinquanta e buona lettura. Fine della recensione.
Il post di oggi è invece sul merito. Sulla qualità del prodotto fornito da noi giornalisti. O meglio, dalle testate. Visti i fatti siriani, il lavoro di Antonella Appiano dovrebbe restare sulle scrivanie dei direttori dei giornali più letti in Italia. Come pure sul comodino di una qualsiasi persona minimamente sensibile a quel che accade appena lontano dai nostri mari. Una sorta di bigino sull’attualità. Suo malgrado, “Clandestina a Damasco” non riceve l’attenzione che merita. Non che sia un libro clandestino – giochiamo sulle parole – bensì è dagli alcuni addetti ai lavori. E nemmeno tutti. Perché l’idea di camuffarsi da ricercatrice e restare a Damasco con qualche pericolola Appiano la ha avuta, ma molti colleghi l’hanno snobbata. «Sai quanti mi hanno detto che ho inventato l’acqua calda?» commenta lei stessa. È vero, mascherarsi da chissachi, quando si è invece lì per recuperare notizie, lo saprebbero fare un tutti. Ma chi davvero si è messo in discussione? Da notare pure che l’autrice non è propriamente quella che passa inosservata tra i suq del Medioriente.

Snobismo. I giornali italiani snobbano le buone idee. Non tanto perché il settore è in crisi, non ci sono lettori, l’argomento non interessa, la pubblicità è poca, eccetera. Ma solo perché il buon lavoro vien fuori da chi ha coraggio. Il nostro mondo sta cambiando. Un pc al posto della carta, una tastiera anziché la penna. Un’evoluzione bellissima. Però, soffermandoci su questa immagine, ci si dimentica che il vero binomio notevole del giornalista è: cervello e scarpe comode. Perché il lettore vuole sapere quello che succede dietro l’angolo. Quindi bisogna scendere in strada. Dobbiamo raccontare. Nient’altro che questo. Le analisi le si possono lasciare ai lettini di psichiatria. Un giornale si scrive con le notizie. Quindi on the road. Magari anche clandestinamente.

 

Postilla personale: al dibattito il sottoscritto ha fatto da gregario. Si è divertito e ringrazia Capramagra. Dicono: «Piaggeria!» No gentilezza.

 

Read Full Post »

L’Assemblea generale dell’Onu approva una risoluzione inutile contro la Siria. Leggi

Read Full Post »

Pubblicato su liberal del 7 febbraio 2012

Nel pieno della battaglia di Homs, l’Esercito siriano di liberazione annuncia la nascita di un Alto consiglio rivoluzionario interno, che sarà comandato dal generale Mustafa Ahmed al-Sheikh. Lo stesso, esattamente un mese fa, aveva annunciato la propria diserzione via tv e web. È un nuovo passo della strategia del ribelli. Mentre sul fronte politico, il Consiglio nazionale siriano (Cns) sta procedendo come una lobby ben inserita nei gangli della diplomazia internazionale, le forze in armi solo ora sembra che abbiamo assunto una struttura gerarchica più complessa. Il Cns vive di rendita grazie alla pressione che l’opposizione al regime ha mantenuto nei decenni. Gli uomini in armi, invece, hanno agito finora seguendo lo schema canonico della guerriglia. Scontri di piazza e utilizzo di armi leggere (i Kalashnikov Ak-47 e gli Rpg). Una strumentazione che si è rivelata assai debole rispetto alla force de frappe adottata dall’esercito regolare. I fedeli del presidente Assad, in particolare la Guardia repubblicana, non si è mai fatta scrupolo nel ricorrere all’artiglieria pesante. Homs in questi giorni torna a essere il bersaglio dei cannoni. I carri armati a loro volta sfilano per le strade del Paese e sparano ad alzo zero sulla folla. Ieri la Lega araba ha detto che il ricorso ad armi di maggiore potenza potrebbe degenerare in una guerra civile. È una dichiarazione che l’organizzazione del Cairo avrebbe dovuto rilasciare ormai quasi un anno fa. Questo neonato consiglio rivoluzionario è una sorta di Stato maggiore provvisorio. La sua origine è dettata da necessità operative. Con l’aumento della violenza negli scontri, si richiede una crescente organizzazione dei vertici di comando. Tuttavia, lo si può vedere anche legato al sempre più importante numero di disertori. Fino a qualche settimana fa, l’esercito di liberazione era costituito da soldati e ufficiali di basso e medio rango. A dicembre, gli osservatori israeliani parlavano di una forza ribelle costituita da 40mila unità circa. Di questi, circa il 40% erano ex soldati di Assad che avevano abbandonato le fila, portandosi con sé armi individuali in dotazione e qualche munizione. La loro meta era la Turchia meridionale, facile da raggiungere e oltre la quale sarebbero stati assistiti e riaddestrati dallo stesso esercito turco, insieme a consulenti militari mandati dagli Usa. Si trattava comunque di un esercito di strada, comandato da Riad al-Asaad, un colonnello. E il fatto che la leadership non fosse tenuta da un generale la dice lunga su quanto poco pungente potesse essere l’intervento operativo di questi uomini. L’arrivo di al-Sheikh ha cambiato le cose. Non è un caso che adesso Youtube pulluli dei messaggi di molti altri disertori – tutti graduati e pluridecorati – che hanno voluto seguire il suo esempio. La concentrazione di tante menti pensanti ha portato alla creazione del consiglio rivoluzionario. Da notare il nome! Nessuno parla di guerra civile. Come fa anche la Lega. Del resto già al-Asaad ci teneva a sottolineare che la resistenza fosse contro il regime ed essendo l’esercito di liberazione costituito anche elementi di etnia alawita, non si parlare di uno scontro confessionale. Ciò che conta, però, è che Al-Sheikh sia un generale a tre stelle, del quale si può immaginare una qualche ambizione politica una volta che Assad sarà sconfitto. È il futuro Tantawi di Damasco? In tal caso saremmo già di fronte alla contraddizione tra il nome che il consiglio si è voluto attribuire e i suoi reali intenti. Quel che non è chiaro è come l’esercito di liberazione sia in grado di recuperare armi e munizioni. Tracciato il solco della strategia politica, è la tattica militare a restare in sospeso. Il massacro di Homs è l’ultima dimostrazione che i ribelli non possono andare avanti a suon di guerriglia. E se dall’estero nessuno ha intenzione di intervenire, viene da chiedersi come potranno ancora resistere. Certo, le attività di mercato nero hanno subito un’impennata. Il Paese non è mai stato estraneo a questo smercio. A suo tempo le armi per i combattenti dell’Iraq contro gli americani passavano dalla Siria. E sempre da qui transitavano quelle per Hezbollah, i salafiti e i palestinesi in Libano. Entrambe le direttrici possono aver subito un’inversione di marcia. Due mesi fa, gli israeliani denunciavano il rifornimento di armi chimiche ai fedeli del rais da parte degli sciiti libanesi. Forse si è trattato di un’esagerazione. Visto che in tempi non sospetti Damasco era già stata accusata di avere un proprio arsenale di armi non convenzionali. Se l’avesse avuto già allora – si era nel 2007 – perché avrebbe dovuto crearne adesso? Di fronte alle coste siriane c’è poi Cipro, mentre alle spalle il Kuristan. Anch’essi punti di smistamento precipui. Il primo, in particolare, è passato alla storia come il centro di stoccaggio di armi e munizioni destinate a tutte le forze che combattevano la guerra in Libano (anni ’70, ’80 e ’90). Nel caso siriano si tratta semplicemente di aggiustare la rotta di pochi gradi a nord.

Read Full Post »

Che fine ha fatto l’Afghanistan? È straordinario come, non appena una crisi finanziaria deborda dalle piazze borsistiche e coinvolge le opinioni pubbliche nazionali, i governi riescano a spegnere i riflettori che in quel momento sono puntati su una guerra. È successo con l’Iran. Tant’è che oggi rischiamo un’escalation da  impreparati. Altrettanto si accadendo per quanto riguarda l’Afghanistan. Il grande Medioriente – ci sia concesso di includere questi due Paesi in una regione non di loro effettiva appartenenza – resta in fiamme. La conferma ci viene dalla Siria. Tuttavia, sembra che l’Occidente, o megliola Nato, una volta ucciso Gheddafi, abbia scelto di prendersi una pausa di riflessione. Ha spento l’interruttore sulla geopolitica propriamente detta. E ha deciso di guardarsi allo specchio, con le proprie debolezze economiche, senza impegnarsi più del necessario per quanto riguarda queste criticità. Intendiamoci: i mercati nazionali restano prioritari. Non si può fare la guerra se la produzione è in affanno. Tuttavia, spesso le guerre non nascono dai problemi economici interni a Europa o Nord America, bensì vi si ripercuotono. E se la questione iraniana dovesse sfuggire di mano, a risentirne sarebbero i nostri bilanci già affaticati.
Il caso afghano risente anch’esso della distrazione generale in seno all’Alleanza atlantica. Tuttavia, il suo status è differente. Il piano di sgombero entro il 2014, deciso da Obama, al momento non è oggetto di discussione. Questo può suggerire che gli Usa stiano pensando di mettere alla prova il claudicante alleato di Kabul e vedere come se la cava in questa fase di interregno ufficioso. Da qui una plausibile giustificazione dello scarso attivismo politico. Non è il caso di avanzare giudizi di merito sulla modalità. Va pur ricordato che Washington ha sì dato tanto all’Afghanistan, ma ha anche una sua responsabilità nell’aver scatenato la guerra contro i talebani. Guerra giusta, non c’è dubbio. Altrettanto è l’exit strategy. Ma a questo punto, perché abbandonare la presa? Così facendo si dà adito alle voci più critiche della Nato. Vale a dire che Enduring freedom e Isaf sono stati come due fiammiferi buttati in una polveriera. Dove peraltro era già in corso un principio di incendio. È convinzione di un folto numero di osservatori che l’intervento Onu post 11 settembre 2001 abbia solo ingrandito il conflitto perpetuo dell’Afghanistan. Talibani, narcotrafficanti e tribù rivali. A questi gli eserciti occidentali non avrebbero fatto altro che aggiungervisi. Questo è il luogo comune. E se Washington perseguirà l’attuale linea della progressiva indifferenza verso Kabul, il 2014 sarà l’anno della conferma del fallimento della guerra.
Le riflessioni valgono il tempo che trovano. Un po’ meno i fatti. È di ieri, l’ok del Fondo monetario internazionale per la concessione di un prestito di 133,6 milioni di dollari per sostenere l’economia del Paese, nell’ottica del delicato periodo di transizione. Il prestito sarà triennale ed erogato in tre tranche, di cui la prima pari a 18,9 milioni di dollari. «Nei prossimi anni – spiega in una nota il direttore generale aggiunto dell’Fmi, Nemat Shafik – il ritiro della presenza militare internazionale e l’atteso calo degli aiuti internazionali rappresenteranno una sfide importante per la politica economica del Paese. Il governo di Kabul dovrà prendersi carico quindi di attività attualmente finanziate dai donatori stranieri, comprese quelle relative alla sicurezza». Mossa positiva, quella dell’Fmi, ma che conferma l’abbandono prossimo venturo da parte della Nato.
Dal Paese degli aquiloni intanto, giungono in questi giorni poche ma significative notizie. Ieri, il presidente Karzai ha convocato a Kabul una Loya Jirga per discutere della situazione politica e sulla sicurezza. Il leader pashtun ha chiamato in assemblea tutti i capi tribali alleati. Ha effettuato uno screening dei legami che vanta ancora nel tessuto sociale e ha cercato di percepire la credibilità che gli viene attribuita. Un tempo di Karzai si diceva che fosse solo il sindaco di Kabul. Oggi non gli viene attribuita nemmeno questa etichetta così riduttiva. Nel frattempo è in aumento quella percentuale di afghani che vedono con pessimismo il futuro del paese.
Premessa: da un sondaggio dell’Asia Foundation, il 35% degli intervistati che l’Afghanistan abbia imboccato lo svincolo sbagliato per uscire dallo stato di guerra. Una convinzione che, rispetto all’anno scorso, è cresciuta di ben otto punti percentuali. Inoltre delle 6.300 persone intervistate, la metà esatta sostiene di temere per la propria vita praticamente ogni giorno, una percentuale quasi doppia di quella registrata nel 2006. Fra le cause del deterioramento della situazione, la principale è l’assenza di sicurezza (45%), seguita da corruzione (16%), malgoverno (15%) e disoccupazione (13%). Infine, i quattro quinti degli intervistati hanno appoggiato la strategia di Kabul di aprire i negoziati con gli oppositori armati al fine di una loro integrazione al tavolo della pace. Comunque solo il 29% ha mostrato una aperta simpatia per gli insorti, contro il massimo del 56% toccato su questo tema nel 2009.
Facile pensare che i dati verranno fatti circolare alla Jirga e che non daranno apportato un contributo favorevole a Karzai. La beffa è già stata anticipata da un danno. Ieri, poco prima dell’apertura dell’assemblea, è stato sventato un attentato nei pressi delle sedi istituzionali della capitale. Poche ore dopo, un attentatore suicida si è fatto invece esplodere, sempre a Kabul, ferendo tre persone. Di un morti e 17 feriti, invece, è il bollettino dell’attacco nella provincia di Faryab. Qui un agente di polizia è stato ucciso a causa dell’esplosione di una bomba trasportata da un asino. I tre i casi fanno capire come l’infiltrazione talebana sia sempre più capillare. A livello logistico, nel senso che gli attentatori si avvicinano ormai con facilità anche ai bersagli più complessi. Ma anche in termini sociali. L’asino è un animale da lavoro, essenziale nella vita contadina, ma anche simbolo di benessere. Se si è disposti a sacrificare un talento così indispensabile, significa che il nemico sa come convincere i suoi adepti e i finanziatori. Teniamo conto che, in contesti simili, la vita di un animale da lavoro ha molto più valore di quella umana. E se prima il martirio veniva effettuato, volenti o no, da uomini, donne e bambini, oggi per questo si usano anche gli asini. Il fanatismo porta a mettere in discussione e investire sul proprio patrimonio. È un discorso che va oltre l’atteggiamento bellicista dei talebani. Bensì abbraccia la popolazione rurale. Al di là del consenso nelle Jirga, è urgente che Karzai si renda conto di questo progressivo avvicinamento ai talebani, da parte del sentire comune. Karzai come anchela Nato.

 

Read Full Post »

Older Posts »