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Posts Tagged ‘Nazioni unite’

Le Nazioni unite temono la presenza di bambini soldato tra le fila dei ribelli che combattono contro Assad. Lo ha dichiarato Radhika Coomaraswamy, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i minorenni e i conflitti armati. La diplomatica cingalese ha comunque ammesso che si tratta di un’informazione ancora da verificare e che richiede «il recupero di ulteriori dati». Che l’opposizione al regime nascondesse un’identità dubbia già si sapeva. I soldi e le armi vengono da chissà dove. Forse dal Golfo, se non da più lontano. La sua stessa linea politica è di difficile definizione. Recentemente il patriarca melchita, Gregorio III Laham, ha detto che solo 1.500 uomini dell’esercito regolare hanno disertato e si sono uniti ai manifestanti. È vero, la comunità cristiana della Siria è da sempre una colonna del Baath. Specie la Chiesa greco cattolica. Tuttavia, è altrettanto fuori di discussione il fatto che questa guerra civile non si limiti a essere una tenzone interna tra buoni (oppositori del regime) e cattivi (Assad & Co). Sono molti gli interessi affinché il conflitto cuocia a fuoco lento magari per qualche anno. Ragione primaria è che se la Siria dovesse chiudere il suo capitolo con la rivoluzione, quest’ultima andrebbe ad abbattersi su altri governi. Magari quello giordano. Oppure ancora più a sud. Per esempio nel Golfo. Scarsa trasparenza e brutalità da ambo le parti. È questo il binomio notevole perché della Siria si continui a parlare senza raggiungere un dunque. Il che vuol dire massacri di cui è difficile identificare il responsabile e notizie ambigue. I bambini soldato danno un contributo disumano a un conflitto che non si vuole dimenticare, ma che al tempo stesso è meglio non risolvere.

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Ieri i ministri degli esteri dei Paesi membri dell’Unione europea si sono riuniti per capire quale sarebbe l’atteggiamento da adottare nei confronti dell’Iran. La settimana scorsa, l’Aiea ha pubblicato il suo ultimo rapporto, in cui si legge che la corsa al nucleare da parte del regime di Teheran si è fatta ancora più serrata.
Nel prosieguo della crisi finanziaria globale, le ambizioni bellicistiche, o comunque aggressive, dell’Iran suonano come uno strumento scordato che nessuno sa gestire. E soprattutto nessuno ha intenzione di impegnarvisi. «I ministri europei discuteranno di quello che è necessario per mostrare a Teheran che questa linea è totalmente inaccettabile», ha indicato Catherine Ashton, responsabile della diplomazia Ue prima del vertice. «Dobbiamo prepararci a rafforzare le sanzioni per evitare ogni intervento irreparabile», ha precisato il ministro degli Esteri francese Alain Juppé. Bruxelles praticamente si trova costretta ad adottare nuove sanzioni. Sulla scia del medesimo atteggiamento da parte degli Stati Uniti. In realtà, per entrambe le cancellerie, l’attenzione è concentrata altrove. Sulla crisi appunto.
C’è poi l’ostacolo Onu. Nel Consiglio di sicurezza, Russia e Cina rappresentano ancora un bastione contrario a qualsiasi misura punitiva, sebbene pacifica, nei confronti degli ayatollah. Non si esclude quindi che le due sponde dell’Atlantico adottino scelte autonome rispetto alla linea della comunità internazionale. La mossa darebbe i suoi frutti sul terreno iraniano, ma sarebbe una potenziale fonte di attrito nei rapporti con Mosca e Pechino.
Del resto, già tra i paesi Ue si avvertono divergenze. L’ipotesi sanzioni è vista da alcuni come l’unica soluzione. Per altri è solo l’anticamera dello scontro diretto. Un attacco agli impianti nucleari iraniani non è infatti esclusiva di Israele. Negli ultimi mesi, la stampa anglosassone si è sbizzarrita nel fare un prospetto delle pressioni pro raid in Gran Bretagna e negli Usa. Più morbidi, invece, i diplomatici continentali. «Riteniamo che queste discussioni siano controproducenti», ha detto il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, respingendo a priori l’opzione. Cosa che appunto non vuole fare Londra. «Tutte le possibilità devono restare aperte», ha detto il capo della diplomazia britannica, William Hague.
Contro l’Iran sono state adottate, già in sede Nazioni Unite, quattro serie di sanzioni, tutte di natura economica e finanziaria. I provvedimenti che Bruxelles vorrebbe realizzare andrebbero a colpire le esportazioni di petrolio ela Bancacentrale iraniana. In ogni caso, la nostra stessa economia ne subirebbe negativamente.
Va ricordato che la scelta delle sanzioni ha riscosso storicamente scarsi risultati. Almeno nella maggior parte dei casi. Si pensi all’Iraq di Saddam Hussein. Nella fattispecie iraniana, l’economia nazionale sta consumando gli ultimi strati di grasso di riserva, accumulati grazie ai proventi petroliferi. Nel 2010, la crescita produttiva è risultata ancora dell’1% circa. Il Paese è uno Stato canaglia, ma per i mercati resta un partner dalle risorse ancora appetibili. Cosa accadrà una volta emarginato il regime? L’opinione pubblica tenterà una seconda Onda verde, additando Khamenei e Ahmadinejad come i responsabili dell’isolamento internazionale, oppure si stringerà a coorte intorno ai suoi leader? In tal caso, la carta militare tornerebbe ancora più controproducente.
A questo proposito, negli ultimi dieci giorni, su Washington sono soffiati nuovi venti di guerra. Correnti provocatorie e di speculazione che, però, sono scemate con la pubblicazione del rapporto dell’agenzie Onu. È vero il senso di questo è risultato più allarmistico rispetto ai documenti precedente. Ma è altrettanto importante notare che, oggi come oggi, nessuna economia occidentale sarebbe in grado di accollarsi un’operazione militare dal futuro tanto incerto. A questo proposito, gli analisti storcono il naso sulla fattibilità di un’incursione hit and run, vittoriosa e senza strascichi. Opzione da sempre caldeggiata da Israele e, che se dovesse concretizzarsi, potrebbe essere gestita proprio da questa. Ma chi assicura Netanyahu che Teheran subirebbe il colpo abbozzando e no reagendo?
Un accordo distonico rispetto al trend pro attacco l’ha suonato venerdì scorso il responsabile del Pentagono, Leon Panetta, il quale ha detto che un raid aereo non risolverebbe il problema. Panetta ha diretto fino a pochi mesi fala Cia.È plausibile che abbia un quadro dello scenario abbastanza da chiaro da permettergli di gettare acqua sul fuoco. Quella dell’altro giorno è stata una puntura a una bolla speculativa. Dopo tanto nervosismo montato improvvisamente, Washington ha detto la sua. A discapito degli interessi e delle speranze di Israele. Evidentemente sono ancora gli Usa ad avere l’ultima voce in capitolo.
Nel frattempo, non è stata fatta ancora chiarezza sul ruolo di Vyacheslav Danilenko, fisico nucleare russo, di scuola sovietica e che avrebbe fornito la propria consulenza al regime sciita. Il nome di Danilenko è venuta a galla quando proprio in coincidenza con la pubblicazione del rapporto Aiea. Nel dossier cui si parla di un “esperto straniero” convocato a Teheran. «Non sono il padre del programma nucleare iraniano», si è limitato a commentare il diretto interessato. Stando al Washington Post però, l’ingegnere non avrebbe ancora chiarito quali siano i motivi della sua collaborazione con gli ayatollah. Ai tempi dell’Urss, Danilenko operava nel centro di Chelyabinsk-70, dove si lavorava a testate nucleari di piccole dimensioni, da applicare a missili, bombe convenzionali o razzi e a detonatori altrettanto piccoli ma in grado di far esplodere la testata. Con il crollo dell’Unione sovietica, Danilenko si è riposizionato sul mercato per scopi esclusivamente lucrativi. In tal senso, fatta eccezione di Pakistan e Corea del Nord, il cerchio di ricerca di restringe.
Resta infine fluida la posizione della Lega araba, in cui è la crisi siriana a far padrona. L’eventualità che il regime di Damasco venga sospeso, a seguito delle repressioni effettuate e delle riforme promesse ma non mantenute, rappresenta uno svantaggio anche per gli ayatollah. Caduto Assad, tutta la cosiddetta rivalsa sciita verrebbe azzoppata. È impensabile però che l’Iran raccolga una qualsivoglia simpatia in seno a una Lega dominata da sauditi, giordani ed egiziani. Vale a dire i migliori alleati degli Usa nella regione. Forse per Teheran l’ipotesi di attacco si allontana. Per quanto non venga fugato. Certamente, si avvicinano ulteriori difficoltà economiche.

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Osservando la situazione attuale delle relazioni tra Israele e Stati Uniti, si potrebbe giungere alla conclusione quanto mai superficiale che i due governi siano “ai ferri corti” e che il rapporto idilliaco fra Washington e il suo alleato più affidabile del Medio Oriente si stia incrinando. La responsabilità di questa frattura ricadrebbe sulle spalle di Barack Obama, entrato alla Casa Bianca ormai un anno fa e che avrebbe cambiato diametralmente la rotta seguita dal suo predecessore Bush. Le “colpe” del Presidente Usa potrebbero essere così sintetizzate. Aver effettuato una nociva pressione sul Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, perché ponga fine alla politica espansionistica degli insediamenti nei Territori palestinesi. Aver concesso troppe aperture a un’Autorità palestinese priva di forza decisionale. In senso più ampio aver deciso di trattare Israele “alla pari” degli Stati arabi. Infine bisogna aggiungere la questione del “Rapporto Goldstone”, il dossier redatto da una commissione di inchiesta delle Nazioni Unite, per far luce sui crimini di guerra che le Forze Armate israeliane e Hamas avrebbero commesso durante l’ultimo conflitto nella Striscia di Gaza. L’Amministrazione Obama, in questo frangente, sarebbe colpevole per l’opinione pubblica israeliana di non essersi ancora spesa a sufficienza affinché uno scandalo di proporzioni internazionali non investa il Paese. Tuttavia, smessi gli abiti dell’analista politico, la sensazione è che i rapporti fra i due governi stiano attraversando un momento di frizione solo temporaneo. Percorrendo le strade di Tel Aviv e di Haifa si percepisce come tra Israele e gli Stati Uniti intercorra un’armonia strutturale difficile da compromettere. Questa amicizia fra due popoli trova manifestazione nella coincidenza di cultura e di vita quotidiana. In particolare le più giovani generazioni della popolazione locale esprimono un atteggiamento “made in Usa” molto più accentuato di quanto accada per esempio tra i giovani europei. Il modo di vestire, lo slang inglese tipico degli Stati Uniti e le notti glamour nelle discoteche sulla costa del Mediterraneo non hanno nulla da invidiare alla vita di Miami o Santa Monica. Del resto la maggioranza della popolazione israeliana – circa l’80% sui 7,1 milioni di abitanti – si dichiara laica e secolare e rimanda le sue tradizioni al socialismo reale di Ben Gurion. Come può una società di questo genere colpevolizzare il primo Presidente Usa di colore? Obama ha spazzato via gli ultimi cascami di un razzismo di cui anche gli ebrei sono stati vittime. È vero, la crescente comunità ortodossa israeliana non appare sensibile a questo cambiamento epocale oltre l’Atlantico. Tuttavia per Israele gli Stati Uniti restano ancora un punto di riferimento culturale e un esempio di modernità. Il problema di conseguenza si limita a essere di carattere politico-diplomatico. Nello specifico si concentra sulla questione del processo di pace. Per tutto il resto, Israele è sicura di godere del pieno appoggio della Casa Bianca. Il caso iraniano è emblematico. L’intransigenza di Washington si è palesata per voce del Segretario di Stato, Hillary Clinton, la quale dall’inizio dell’anno, in coincidenza con lo scadere dei termini dell’accordo di Vienna, è tornata a proporre un irrigidimento delle sanzioni contro Teheran. A questa si è aggiunta la recente dichiarazione del Comandante del Centocom, il generale David Petraeus, il quale non ha escluso l’eventualità di un attacco preventivo contro i siti nucleari iraniani nel caso il Pentagono lo ritenesse necessario. Le posizioni della Clinton e del four stars general coincidono con quelle del governo israeliano e del Ministero della Difesa. Esse sono un “ticket” che garantisce all’unica democrazia mediorientale la piena protezione nel caso il regime di Teheran riesca davvero a raggiungere il temuto obiettivo, vale a dire disporre di un arsenale nucleare, anziché produrre energia per scopi civili. Tutto questo pone in evidenza che la frattura diplomatica tra Israele e Usa è più un affare mediatico che un concreto problema delle rispettive cancellerie. Obama ha manifestato fin dal suo insediamento l’intenzione di concludere la questione israelo-palestinese. La pace non potrebbe che tornare politicamente utile ed economicamente vantaggiosa per Israele. Proprio per questo Netanyahu si è irrigidito nei confronti di Obama esclusivamente su determinati punti dei negoziati. Sa di dover fronteggiare la determinazione di un Presidente Usa, con il quale potrà mostrare i muscoli fino a un certo punto, in quanto gli Usa restano il primo sostenitore, militare e monetario, di Israele. Al Premier israeliano inoltre si presenta l’occasione di confrontarsi con l’Autorità Palestinese mai così screditata presso la sua stessa popolazione e gli alleati arabi. Non dimentichiamoci infine che anche Netanyahu ha un’opinione pubblica alla quale deve rispondere. L’obiettivo quindi risulta quello di immagazzinare il più possibile le proprie risorse, per poter in un secondo momento negoziare da una posizione nettamente superiore. In termini tattici, quindi, la strategia israeliana è concentrarsi sulla questione degli insediamenti. Questa è la forza di Netanyahu di fronte all’elettorato, ma anche l’unico punto che il governo del Paese non vuole mettere in discussione e quindi portare al tavolo dei negoziati. Le previsioni della stampa locale si sbilanciano nel sostenere che presto o tardi anche Obama si renderà conto della realtà e che la sua metodologia di trattare con gli arabi adottando strumenti di negoziato che sono esclusivi del mondo occidentale non serve. Ciò che è necessario a Washington – e Israele lo sa bene perché è un Paese fondato da ebrei ashkenaziti, quindi di origine occidentale, ma che vivono nel cuore del Medio Oriente – è saper scendere a compromessi. In un certo senso come si fa in qualsiasi tipo di trattazione commerciale in Oriente: dal suq alle grandi questioni politiche. La merce di scambio è sotto gli occhi di tutti, come sanno bene in gli israeliani. Questi aspettano al varco Obama, curiosi di capire come riuscirà a destreggiarsi fra le correnti contrastanti, le secche e le onde anomale che caratterizzano da sempre i mari della diplomazia mediorientale. C’è il nodo Iran, sul quale si percepisce la piena concordia fra i due governi. C’è inoltre il “Rapporto Goldstone”. Il vento mediatico su questo dossier dell’Onu non ha ancora soffiato con tutta la sua forza. Nel caso dovesse succedere, Israele è convinta che Washington saprà intervenire per spegnere immediatamente i focolai di aggressione che nascono dalle cosiddette “500 pagine di falsità”, secondo l’opinione diffusa in Israele sul dossier. Se il Goldstone buttasse nuova benzina sul fuoco contro le forze Armate israeliane, il primo a restarne bruciato sarebbe Obama, il quale pagherebbe uno scotto in termini di consenso interno agli Usa, ma soprattutto i suoi obiettivi di pace in Medio Oriente si scontrerebbero con una ritrovata rigidità da parte di tutti i soggetti regionali. Israele rinuncerebbe a trattare con l’Anp perché si sentirebbe tradito dal suo alleato, nonché deluso dall’“uomo nuovo” alla Casa Bianca.

Pubblicato su Medarabnews del 28 gennaio 2010

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