«Le possibilità che il vertice di Amman sia un fallimento sono minime. Le chance che segni l’inizio di una nuova fase di negoziati sono nulle». Era sibillino Haaretz ieri nell’introdurre l’incontro che si è tenuto nella capitale giordana tra israeliani e palestinesi. Alla presenza (utile?) dei rappresentanti del Quartetto, l’inviato del governo Netanyahu, Yitzhak Molcho, e il delegato dell’Autorità palestinese, Saeb Erekat, sono tornati a stringersi la mano. Il gesto ha interrotto il silenzio che durava da quindici mesi, ossia da quando Abu Mazen fece saltare il tavolo dei negoziati di fronte a un premier israeliano irremovibile nel proseguire la politica espansionistica degli insediamenti intorno a Gerusalemme. In termini generali, mai uno scenario è stato peggiore per un meeting del genere. Ci si domanda infatti il motivo di questo incontro. Per riprendere il confronto? E in vista di quale obiettivo? Non è da escludere che Molcho ed Ekerat si siano visti proprio per ammettersi reciprocamente la necessità di congelare sine die la questione. Sempre che una guerra (contro Teheran?) non faccia saltare il tappo. In tal caso però, quello israelo-palestinese non sarebbe più un dialogo diplomatico.
Riprendiamo il ragionamento di Haaretz. La sua non è una visione pessimistica, bensì quella di chi osserva la realtà e non può fare a meno di dire: «Id est». I presupposti per l’incontro di ieri mancavano su tutta la linea. Dopo il 2011 così destabilizzante per il Medioriente e per il Nord Africa, era impossibile aspettarsi un’apertura d’anno in controtendenza e positivo unicamente per quei due schieramenti che più di ogni altro sono invischiati nel processo di pace. L’Egitto è in crisi ela Giordaniaè a un passo dalla stessa. I due alleati arabi più affidabili dell’Occidente e unici interlocutori ufficiali di Israele nella regione in pratica non esistono. In tal senso, ha poco valore il fatto che il vertice si sia tenuto ad Amman. Dall’altra parte della barricata, Siria e Iran hanno tutt’altro a cui pensare. In seno alla Lega Araba, gli emiri del Golfo si sono chiusi nei propri fortini dorati, con la paura che il 2012 sia la fotocopia dello scorso anno. Solo che stavolta a rimetterci sarebbero loro e non i tiranni nordafricani.
La stessa calcolata indifferenza la si raccoglie presso i governi occidentali. Il già citato Quartetto conferma il proprio ruolo di “bella statuina”. C’è da chiedersi cosa sia successo a Blair, che in questi anni è passato dalla compulsiva bramosia di visibilità, quando era premier britannico, alla attuale ombra di se stesso. A cascata poi pesano le altre assenze. Mosca è anch’essa alle prese con scricchiolii non rassicuranti sotto le poltrone del Cremlino. L’Unione europea sembra imitare Blair. Infine, ci sono gli Usa che sono già entrati in campagna elettorale. Obama, di fronte a una vittoria quasi certa solo perché di fronte non ha nessuno, è plausibile che abbia deciso di non sfidare ulteriormente la sorte. In tempi di voto, le sabbie del Medioriente si muovono fino a far tremarela Casa Bianca.E Obama non ha intenzione di sprofondare.
Passiamo poi alle dirette parti in causa. Non è chiaro il futuro dell’Anp. Appena due mesi fa, si mormorava di un possibile ritorno al confronto tra Hamas e Fatah. Questo era buono. O meglio, lo sarebbe stato se avesse avuto un seguito. Da novembre a oggi, il movimento islamista ha mantenuto un atteggiamento dimesso. Alle volte ambiguo. Domenica, Ismail Hanyyeh, pseudo-premier a Gaza, è atterrato in Turchia per una visita ufficiale. Qui è stato trattato alla stregua di un qualsiasi capo di governo. Il premier turco Erogan, che bussa alla porta della Ue e che si siede al tavolo della Nato come membro a pieno titolo dell’alleanza, si è incontrato con una personalità palestinese che non si sa come classificare. Nessuno criticala Turchia. Anzi, in un vuoto di iniziativa diplomatica, ben vengano le sue mosse individuali. Tuttavia, forse bisognerebbe chiarire i ruoli dei giocatori in campo. Hamas, per l’Ue e gli Usa, è un gruppo terroristico. Ad Ankara lo sanno questo, vero? La domanda andrebbe rivolta anche allo stesso movimento islamista. È cosciente, questo, chela Turchiaè alleata dei suoi peggiori nemici? Ma entrambe le questioni susciterebbero risposte capziose e bizantinismi tipici del Medioriente. D’altra parte, il portavoce dell’organizzazione, Sami Abu Zuhri, ha chiesto ai rappresentanti dell’Anp di boicottare l’incontro di Amman, in quanto esempio di «politica fallimentare». Ecco l’ambiguità. La presidenza di Abu Mazen è sempre stata bistrattata e accusata di essere al soldo di Israele. Ora Hamas si comporta quasi come partito di opposizione che chiede cortesemente al suo governo di calcolare le mosse prima di agire. È un segno del dialogo prossimo venturo nell’Anp?
Più nette sono le direttrici che starebbe imboccando Israele. Quando un centinaio di ultra-ortodossi fanatici riescono svillaneggiare l’Olocausto per i propri interessi di quartiere e quando il governo Netanyahu – che ha vinto per mano degli haredim – non riesce ad assumere una posizione di duro rigetto, significa che il sogno laico di Ben Gurion, Golda Meir e soprattutto di Yitzhak Rabin, ma forse anche di Ariel Sharon, sta sprofondando nel baratro del fondamentalismo religioso. Un male, questo, che non fa coppia solo con il Corano, ma anche conla Torahe in alcuni casi con il Vangelo. Non è vero che il governo israeliano non voglia negoziare. Netanyahu non può negoziare. Non ha forza politica, carisma personale e tanto meno numeri. Per inciso: ieri sono stati pubblicati gli ultimi sondaggi demografici di israeliani e palestinesi. Tra ondate migratorie, masse di profughi e boom di nascite, le due comunità ormai sarebbero alla pari. Nessuna delle due osa ammetterlo però. Che peccato, sarebbe stato l’unico argomento davvero valido su cui trattare ad Amman.
Pubblicato su liberal del 4 gennaio 2011
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