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Posts Tagged ‘Israele’

L’Egitto è l’Egitto. È questo è il leitmotiv che ripete chi è sicuro che all’ombra delle  piramidi non potrebbe mai attecchire un qualsiasi fondamentalismo religioso. L’Egitto è l’Egitto, è vero. La tradizione laica e occidentale del Paese lo rende immune da tutto ciò che è estremo, integralista ed esclusivo. Al Cairo e ad Alessandria c’è una middle class colta che non ha alcuna intenzione di velare mogli e figlie. Tuttavia, c’è anche una società rurale in crescita e una povertà latente che sono ormai il bacino di sostegno politico e sociale di quelle forze che con il passato socialista e borghese dell’Egitto non hanno nulla a che vedere. È in questa società che sta cambiando che ha preso piede la Fratellanza musulmana. Sostenuta anche da forti percentuali di residenti nelle grandi città, dove il tenore di vita è crollato.

L’Egitto era l’Egitto quindi? Il Paese si sta evolvendo. Sicché è giusto riferirsi al passato. È altrettanto giusto preoccuparsi? La Fratellanza musulmana, gli addetti ai lavori lo sanno, è tutt’altro che un blocco monolitico di imam che vorrebbe imporre il Corano a tutti. Anzi, paradossalmente è il più longevo prodotto politico di quell’Egitto illuminato di inizio Novecento, che a noi europei piace sempre ricordare.

D’altra parte i Fratelli musulmani sono persone serie. Avevano promesso di vincere alle elezioni. Ci sono riusciti. Si erano detti contrari al trattato di pace con Israele e che l’avrebbero rivisto una volta ottenuta la maggioranza in parlamento. Proprio ieri la Camera bassa ha approvato la chiusura delle forniture di gas oltre frontiera e l’espulsione dell’ambasciatore israeliano al Cairo. Ecco, questo è un brutto segnale, per cui è giusto preoccuparsi. Il rischio non è tanto che un partito di tendenza religiosa assuma il controllo del Paese. Il problema è che all’interno di questo venga dato ossigeno alle frange più agguerrite, minoritarie sì, ma che – essendo capaci nel raccogliere celermente consensi – possano prendere il sopravvento.

Egitto e Israele erano amici. Fino a poche ore fa. Amici sempre pronti a bisticciare, ma comunque si parlavano. Adesso non è più così. È colpa  dei Fratelli musulmani? Non di tutti loro. Una parzialità che offre comunque il fianco alla critica da parte di chi li vuole attaccare perché fondamentalisti. È la vecchia storia de «l’avevamo detto!». L’Egitto era quel che la rivoluzione, nel bene e nel male, ha resettato.

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«Le possibilità che il vertice di Amman sia un fallimento sono minime. Le chance che segni l’inizio di una nuova fase di negoziati sono nulle». Era sibillino Haaretz ieri nell’introdurre l’incontro che si è tenuto nella capitale giordana tra israeliani e palestinesi. Alla presenza (utile?) dei rappresentanti del Quartetto, l’inviato del governo Netanyahu, Yitzhak Molcho, e il delegato dell’Autorità palestinese, Saeb Erekat, sono tornati a stringersi la mano. Il gesto ha interrotto il silenzio che durava da quindici mesi, ossia da quando Abu Mazen fece saltare il tavolo dei negoziati di fronte a un premier israeliano irremovibile nel proseguire la politica espansionistica degli insediamenti intorno a Gerusalemme. In termini generali, mai uno scenario è stato peggiore per un meeting del genere. Ci si domanda infatti il motivo di questo incontro. Per riprendere il confronto? E in vista di quale obiettivo? Non è da escludere che Molcho ed Ekerat si siano visti proprio per ammettersi reciprocamente la necessità di congelare sine die la questione. Sempre che una guerra (contro Teheran?) non faccia saltare il tappo. In tal caso però, quello israelo-palestinese non sarebbe più un dialogo diplomatico.

Riprendiamo il ragionamento di Haaretz. La sua non è una visione pessimistica, bensì quella di chi osserva la realtà e non può fare a meno di dire: «Id est». I presupposti per l’incontro di ieri mancavano su tutta la linea. Dopo il 2011 così destabilizzante per il Medioriente e per il Nord Africa, era impossibile aspettarsi un’apertura d’anno in controtendenza e positivo unicamente per quei due schieramenti che più di ogni altro sono invischiati nel processo di pace. L’Egitto è in crisi ela Giordaniaè a un passo dalla stessa. I due alleati arabi più affidabili dell’Occidente e unici interlocutori ufficiali di Israele nella regione in pratica non esistono. In tal senso, ha poco valore il fatto che il vertice si sia tenuto ad Amman. Dall’altra parte della barricata, Siria e Iran hanno tutt’altro a cui pensare. In seno alla Lega Araba, gli emiri del Golfo si sono chiusi nei propri fortini dorati, con la paura che il 2012 sia la fotocopia dello scorso anno. Solo che stavolta a rimetterci sarebbero loro e non i tiranni nordafricani.

La stessa calcolata indifferenza la si raccoglie presso i governi occidentali. Il già citato Quartetto conferma il proprio ruolo di “bella statuina”. C’è da chiedersi cosa sia successo a Blair, che in questi anni è passato dalla compulsiva bramosia di visibilità, quando era premier britannico, alla attuale ombra di se stesso. A cascata poi pesano le altre assenze. Mosca è anch’essa alle prese con scricchiolii non rassicuranti sotto le poltrone del Cremlino. L’Unione europea sembra imitare Blair. Infine, ci sono gli Usa che sono già entrati in campagna elettorale. Obama, di fronte a una vittoria quasi certa solo perché di fronte non ha nessuno, è plausibile che abbia deciso di non sfidare ulteriormente la sorte. In tempi di voto, le sabbie del Medioriente si muovono fino a far tremarela Casa Bianca.E Obama non ha intenzione di sprofondare.

Passiamo poi alle dirette parti in causa. Non è chiaro il futuro dell’Anp. Appena due mesi fa, si mormorava di un possibile ritorno al confronto tra Hamas e Fatah. Questo era buono. O meglio, lo sarebbe stato se avesse avuto un seguito. Da novembre a oggi, il movimento islamista ha mantenuto un atteggiamento dimesso. Alle volte ambiguo. Domenica, Ismail Hanyyeh, pseudo-premier a Gaza, è atterrato in Turchia per una visita ufficiale. Qui è stato trattato alla stregua di un qualsiasi capo di governo. Il premier turco Erogan, che bussa alla porta della Ue e che si siede al tavolo della Nato come membro a pieno titolo dell’alleanza, si è incontrato con una personalità palestinese che non si sa come classificare. Nessuno criticala Turchia. Anzi, in un vuoto di iniziativa diplomatica, ben vengano le sue mosse individuali. Tuttavia, forse bisognerebbe chiarire i ruoli dei giocatori in campo. Hamas, per l’Ue e gli Usa, è un gruppo terroristico. Ad Ankara lo sanno questo, vero? La domanda andrebbe rivolta anche allo stesso movimento islamista. È cosciente, questo, chela Turchiaè alleata dei suoi peggiori nemici? Ma entrambe le questioni susciterebbero risposte capziose e bizantinismi tipici del Medioriente. D’altra parte, il portavoce dell’organizzazione, Sami Abu Zuhri, ha chiesto ai rappresentanti dell’Anp di boicottare l’incontro di Amman, in quanto esempio di «politica fallimentare». Ecco l’ambiguità. La presidenza di Abu Mazen è sempre stata bistrattata e accusata di essere al soldo di Israele. Ora Hamas si comporta quasi come partito di opposizione che chiede cortesemente al suo governo di calcolare le mosse prima di agire. È un segno del dialogo prossimo venturo nell’Anp?

Più nette sono le direttrici che starebbe imboccando Israele. Quando un centinaio di ultra-ortodossi fanatici riescono svillaneggiare l’Olocausto per i propri interessi di quartiere e quando il governo Netanyahu – che ha vinto per mano degli haredim – non riesce ad assumere una posizione di duro rigetto, significa che il sogno laico di Ben Gurion, Golda Meir e soprattutto di Yitzhak Rabin, ma forse anche di Ariel Sharon, sta sprofondando nel baratro del fondamentalismo religioso. Un male, questo, che non fa coppia solo con il Corano, ma anche conla Torahe in alcuni casi con il Vangelo. Non è vero che il governo israeliano non voglia negoziare. Netanyahu non può negoziare. Non ha forza politica, carisma personale e tanto meno numeri. Per inciso: ieri sono stati pubblicati gli ultimi sondaggi demografici di israeliani e palestinesi. Tra ondate migratorie, masse di profughi e boom di nascite, le due comunità ormai sarebbero alla pari. Nessuna delle due osa ammetterlo però. Che peccato, sarebbe stato l’unico argomento davvero valido su cui trattare ad Amman.

 Pubblicato su liberal del 4 gennaio 2011

 

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Mentre sulla stampa si moltiplicano le rivelazioni su presunte attività commerciali in Iran della mega-holding dei fratelli israeliani Sami e Yuli Ofer, la Knesset comincerà domani a cercare di far luce sulla intricata vicenda e in particolare sulle relazioni fra la società e il governo d’Israele. Alcuni giornali sostengono che gli Ofer avrebbero agito dopo aver ricevuto un assenso delle autorità, mentre altri lo negano. La vicenda – che è fonte di grave imbarazzo per Israele, impegnato in prima linea a favore delle sanzioni nei confronti dell’Iran e contro i piani nucleari della Repubblica Islamica – è venuta alla luce la settimana scorsa quando una società dei fratelli Ofer è stata inserita a sorpresa dagli Usa in una nuova lista nera di soggetti sottoposti a sanzioni per presunti commerci illeciti con Teheran. Il riferimento era in particolare alla vendita di una petroliera (la ‘Ruffles Park’) rilevata, dopo almeno un passaggio, da una società iraniana. Nel frattempo la stampa israeliana ha ricostruito in dettaglio le attività di una società di Singapore, la Tanker Pacific, che appartiene a Sami Ofer. A partire dal 2002 diverse sue navi (la Raffles Park, la Alaskan Sea, la Cosmic Jewel, la Black Sea) risulterebbero essere approdate almeno 13 volte nei porti iraniani di Bandar Abbas e dell’Isola di Khark. Un portavoce della famiglia Ofer ha precisato che in quell’epoca non c’erano sanzioni internazionali che lo vietavano. Il quotidiano economico Calcalist aggiunge che Sami Ofer si trova adesso ”in una zona grigia”. Da un lato potrebbe aver comunque infranto la legge israeliana, che vieta di intrattenere affari con ”Paesi nemici”. Ma dall’altro, ha la cittadinanza di Monaco e nel Principato è registrata la società che gestisce le attività della Tanker Pacific. La situazione paradossale – nota il giornale – è che mentre la famiglia Ofer ha un peso molto rilevante nell’economia israeliana, essa può anche sostenere di non essere soggetta alla legge di Israele. Secondo alcuni media, la vicenda potrebbe tuttavia produrre se non altro chiarezza: ossia obbligare le autorità a stringere le maglie e a rendere più stretti i controlli sulle aziende israeliane (stimate sorprendentemente in oltre 200) che sembrano avere rapporti indiretti col Paese degli Ayatollah.

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di Ilaria Pedrali

La popolarità del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, è aumentata. Oggi, secondo un sondaggio pubblicato da Haaretz, sarebbe al 51%, contro il 38% di soli due mesi fa. Il merito andrebbe tutto alle sue dichiarazioni contrarie alle proposte del Presidente Obama di tornare ai confini del 1967. Nonostante questo però c’è una fetta della popolazione israeliana a cui il discorso di Netanyahu al Congresso non è piaciuto. Sono quei coloni che vivono nei territori fuori dai confini del 1967. Arrabbiati e un po’ preoccupati per il passaggio sui “dolorosi compromessi” che porterebbero Israele a cedere “alcune parti della patria ancestrale ebraica”. In questo modo, tecnicamente, alcune colonie della Cisgiordania si ritroverebbero a essere fuori dallo Stato di Israele e quindi in quella che dovrebbe diventare la futura Palestina. E ai coloni questa condizione proprio non va giù. Del resto anche Abu Mazen aveva detto che non avrebbe accettato la presenza di coloni ebrei sul territorio palestinese nel momento in cui esso fosse internazionalmente riconosciuto come uno Stato a tutti gli effetti.
E così il movimento dei “settlers” ha espresso il proprio disappunto. C’è chi si sente abbandonato da quella patria che ha chiesto loro di occupare la terra, chi teme che palestinesi li distruggano, chi promette battaglia e resistenza. Più diplomaticamente, il numero uno del movimento del coloni, Danny Dayan, ha contestato la disponibilità manifestata al Congresso sulla potenziale rinuncia futura a qualche imprecisato insediamento ebraico della Cisgiordania, pur esprimendo complessivamente una sostanziale comunanza di vedute con il premier. Va detto anche che Netanyahu, nel suo discorso, aveva affermato che gli ebrei non sono né occupanti né stranieri in terra di Giudea e di Samaria. Rimane da capire allora, cartina alla mano, quali saranno le ipotetiche colonie che potrebbero rimanere fuori da Israele. Ma a questo punto verrebbe da chiedersi: che ragione avrebbero di esistere?

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Gli Hezbollah libanesi si schierano a fianco del regime siriano di Bashar al-Assad, scosso da oltre due mesi da proteste anti-regime in molte città del Paese. “Siamo fedeli alla sicurezza della Siria, del suo regime e del suo popolo”, ha detto oggi il leader del movimento sciita filo-iraniano, il sayyid Hasan Nasrallah. Parlando in collegamento video da una località sconosciuta, tramite un maxischermo installato a Nabi Shit, nella valle orientale della Beqaa in occasione dell’11/o anniversario della liberazione del sud del Libano dall’occupazione israeliana (1978-2000), Nasrallah ha invitato “i siriani a proteggere il loro regime e concedere ad esso una possibilità di attuare riforme e aprire al dialogo”. “Far cadere il regime siriano – ha detto – va nell’interesse di Israele e Stati Uniti”. Il leader sciita ha inoltre ribadito che Hezbollah non intende “interferire in quel che sta avvenendo in Siria” e che vuole invece “lasciare che i siriani gestiscano da solo i loro affari”. A tal proposito, Nasrallah ha definito infondate le voci su un possibile coinvolgimento dei miliziani di Hezbollah a fianco delle forze di sicurezza siriane nel reprimere le manifestazioni popolari. “Rifiutiamo tutte le sanzioni decise dall’occidente controla Siria”, ha aggiunto quindi Nasrallah, riferendosi alle misure restrittive decise da Ue e Stati Uniti nei confronti del presidente Bashar al-Assad e a numerosi membri del regime. “Il Libano non deve in alcun modo pugnalarela Siriaed esser sottomesso agli interessi americani”, ha affermato il leader di Hezbollah, che ha sottolineato il ruolo fondamentale svolto da Damasco nel sostenere la resistenza contro Israele e a mantenere l’unità del Libano. “Siamo preoccupati per quanto viene complottato controla Siriae il suo popolo”, ha aggiunto il Sayyid libanese, secondo cui il rais siriano “crede nelle riforme e intende realizzarle”.

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