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Posts Tagged ‘Siria’

Ce l’ho fatta. È la seconda volta che leggo Cronache mediorientali di Robert Fisk. 1096 pagine. Tolti indice analitico, cronologia, note e altro. C’ho messo due mesi, ma ci sono riuscito. Ne ho sentito il bisogno da quando sono cominciati gli scontri di piazza Tahrir, a febbraio. La fine di Mubarak è stata un segnale per far capire che, davvero, il mondo arabo sta facendo sul serio. E forse non solo quello arabo. Il quadrante Af-Pak non è rimasto silente in questi mesi. Tuttavia, l’onda che arriva subito dopo le rivoluzioni (una cosa seria appunto) è sempre un problema. E Fisk ce lo dimostra. Un mattone di libro per ammonire che la storia, specie in Medioriente, si ripete. Eccome se si ripete!La Siriadi oggi è l’Iran dello scià, quando il trono del pavone era a un passo dal crollo. Forse è lo stesso per l’Egitto, dove la giunta del Cairo fa credere che, caduto il rais, sia tornato il sereno. Mentre l’Afghanistan, suo malgrado, non è mai cambiato.
Una nuova generazione di arabi è scesa in piazza. Libertà, democrazia, trasparenza. Chi è che osa mettersi di traverso a questi valori per cui Europa e Stati Uniti si sono battuti nei secoli? Eppure le cose non stanno andando come dovrebbero. Perché? Perché non si cambia passo da un giorno all’altro. Siamo solo all’inizio di un lungo cammino. Sta all’Occidente – non solo alle blogosfere arabe – capire quale sia la rotta giusta, per evitare il disastro, oppure per tornare a parlare con Egitto, Tunisia e, chissà, magari anche con Libia e Siria. Stabili sì, come desiderato da molti, ma ringiovanite, com’è giusto che siano.
Certo, da Fisk non è facile recuperare ottimismo. Anzi, le sue interpretazioni spesso fanno innervosire. Ma un buon libro, perché abbia valore, deve fare inXXzzare. Cronache mediorientali è utile – non alla prima e nemmeno alla seconda, forse alla terza lettura – perché ci dice proprio quello che non si dovrà fare per evitare il peggio. Sbagliando si impara. Giusto?

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Gli Hezbollah libanesi si schierano a fianco del regime siriano di Bashar al-Assad, scosso da oltre due mesi da proteste anti-regime in molte città del Paese. “Siamo fedeli alla sicurezza della Siria, del suo regime e del suo popolo”, ha detto oggi il leader del movimento sciita filo-iraniano, il sayyid Hasan Nasrallah. Parlando in collegamento video da una località sconosciuta, tramite un maxischermo installato a Nabi Shit, nella valle orientale della Beqaa in occasione dell’11/o anniversario della liberazione del sud del Libano dall’occupazione israeliana (1978-2000), Nasrallah ha invitato “i siriani a proteggere il loro regime e concedere ad esso una possibilità di attuare riforme e aprire al dialogo”. “Far cadere il regime siriano – ha detto – va nell’interesse di Israele e Stati Uniti”. Il leader sciita ha inoltre ribadito che Hezbollah non intende “interferire in quel che sta avvenendo in Siria” e che vuole invece “lasciare che i siriani gestiscano da solo i loro affari”. A tal proposito, Nasrallah ha definito infondate le voci su un possibile coinvolgimento dei miliziani di Hezbollah a fianco delle forze di sicurezza siriane nel reprimere le manifestazioni popolari. “Rifiutiamo tutte le sanzioni decise dall’occidente controla Siria”, ha aggiunto quindi Nasrallah, riferendosi alle misure restrittive decise da Ue e Stati Uniti nei confronti del presidente Bashar al-Assad e a numerosi membri del regime. “Il Libano non deve in alcun modo pugnalarela Siriaed esser sottomesso agli interessi americani”, ha affermato il leader di Hezbollah, che ha sottolineato il ruolo fondamentale svolto da Damasco nel sostenere la resistenza contro Israele e a mantenere l’unità del Libano. “Siamo preoccupati per quanto viene complottato controla Siriae il suo popolo”, ha aggiunto il Sayyid libanese, secondo cui il rais siriano “crede nelle riforme e intende realizzarle”.

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   di Ilaria Pedrali

A tratti sorprendente e a tratti deludente. Così si potrebbe dire del discorso che il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha rivolto ieri al mondo arabo. Un discorso che arriva a due anni di distanza da quello pronunciato al Cairo, che prometteva un nuovo inizio dei rapporti con l’America. Un discorso, quello del 2009 che auspicava anche a una maggiore democratizzazione del Medio Oriente musulmano, che forse ha posto le basi per i movimenti della Primavera Araba e ha acceso il desiderio di riforme dei giovani nordafricani e mediorientali.
Ieri, in quello che ci si aspettava fosse un “Cairo II” e che invece ha deluso quasi tutti, le parole di Obama sapevano di retorica. Ha voluto evidenziare la discontinuità con cui si intende affrontare d’ora in poi le questioni del nord Africa perché “lo status quo non è più sostenibile. Le società tenute insieme dalla paura sono fragili. Abbiamo la possibilità di dimostrare che i valori americani sono gli stessi di quei giovani che si sono ribellati”. Parla di aiuti concreti, Obama: un miliardo di debiti annullati e un miliardo di prestiti per l’Egitto, oltre alla richiesta al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale di un piano d’intervento da presentare al vertice G8 della settimana prossima per stabilizzare e modernizzare le economie di Tunisia ed Egitto. Cosa che ha diviso gli economisti egiziani, poiché in molti si aspettavano una cancellazione totale del debito.
I cambiamenti epocali che stanno avvenendo in Nordafrica e in Medio Oriente sono stati giudicati positivamente da Obama e la sua previsione è che presto cadranno altri tiranni, il riferimento a Bashar el Assad è lampante e per Gheddafi è solo questione di tempo. Perché il futuro degli Stati Uniti, e del mondo, passa dal Medio Oriente.
E a proposito di Medio Oriente la parte più lunga e controversa del discorso di Obama è dedicata al conflitto israelopalestinese. Una cosa nuova è stata detta, o meglio, due: che Israele, stato ebraico, deve ritirarsi entro i confini del 1967. Parole che hanno stupito gli israeliani, i palestinesi, e molti esponenti dell’Amministrazione americana. All’indomani del discorso la stampa araba e quella israeliana si sono concentrate su queste parole. Per i media d’Israele Barack Obama ha lanciato una sfida a Bibi Netanyahu proprio alla vigilia del loro incontro, in agenda per oggi a Washington, uno scontro secondo molti, una vendetta. Unica voce fuori dal coro è Haaretz che giudica storico il discorso dell’inquilino della Casa Bianca e accusa Netanyahu di non “perdere mai l’occasione di perdere un’occasione”, citando un rimprovero che viene ripetuto continuamente da Israele alla leadership palestinese. Ma la lettura forse più interessante la fornisce Sever Plocker dalle colonne di Yedi’ot Aharonot: secondo l’editorialista il discorso di Obama era intriso dell’essenza della storia israeliana sionista. I palestinesi non si devono aspettare una proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina durante l’assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Di fatto non c’è stata una vera pressione sulla questione degli insediamenti, solo una critica. E ieri è stata autorizzata la costruzione di altri 1520 alloggi nelle colonie nei dintorni di Gerusalemme Est.
Il fatto che i palestinesi debbano riconoscere la natura ebraica dello stato di Israele e quindi rinunciare al diritto del ritorno sono i cardini su cui poggia il movimento sionista. Avrebbe fatto male, quindi, Netanyahu a interpretare in maniera ostile le parole del Presidente degli Stati Uniti e a ribattere che Israele in questo modo sarebbe uno stato indifeso. Che Obama abbia tendenze sioniste lo pensa anche Hamas. Così il portavoce Ismail Radwan: “è un discorso che ignora una volta di più i diritti dei palestinesi. Un discorso schierato dalla parte d’Israele e concentrato sulla sola sicurezza dell’entità sionista”.
Che sia proprio questo ad aver fatto accogliere con scetticismo il discorso nel mondo arabo? Solo la Giordania ha salutato favorevolmente l’appello di Obama, purché alle parole seguano fatti concreti. Secondo il regime siriano non c’è nulla di nuovo relativamente al processo di pace, la situazione in Iraq o la sicurezza e la stabilità regionale, e Obama viene paragonato a George W. Bush e le sue scelte politiche in linea con quelle del 2005. Critiche anche da parte egiziana: Issam Erian, membro di spicco della Fratellanza musulmana, ha definito deludente l’intervento del presidente americano: “Non ha detto nulla di nuovo, la strategia americana rimane la stessa in Iraq e Afghanistan, e le promesse di Washington rimangono promesse”.
Sarà vero, come dicono gli assistenti di Netanyahu, che Obama non capisce la realtà del Medio Oriente?

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  di Alessandro Marchetti

La “primavera araba” si avvicina lentamente al solstizio d’estate. Malgrado la dura resistenza in Libia delle forze di Gheddafi (per molti ormai solo il sindaco di Tripoli), non è prematura una riflessione che, a bocce ferme, consegni non più solo ad analisti e osservatori una valutazione sulla novità portata dalle rivolte che in questi mesi hanno “contagiato” prima la Tunisia per poi si sono diffuse in Egitto, Siria e Libia. Novità per gli europei fortemente simboliche. Quasi profetiche (si pensi all’enorme accelerazione dei fenomeni migratori). Tuttavia per gli italiani, come al solito, anche verità false o comunque sopravvalutate. Un mito da sfatare sulla cacciata di Ben Alì, sulla rivolta per il pane in Algeria, e sulla destituzione di Mubarak dal “suo” Egitto è anzitutto quello sul ruolo determinante svolto dal web e dei nuovi media, come i social network.

 Alcuni dati sulla diffusione di Internet nel Nord Africa.
Nessuno infatti in casa nostra, fra i sedicenti esperti di comunicazione, attenti osservatori e leader di generazioni invisibili ha messo sotto il naso degli italiani un dato piccolo piccolo: se la media in Europa è di 232 collegamenti internet ogni 1000 abitanti, e in Asia 25, in Africa è 5 ovvero, rispettivamente, poco più di un decimo e di un cinquantesimo del livello europeo. È bene ricordare che per i singoli paesi, specialmente ai livelli più bassi di hostcount (ossia il conto dei terminali collegati alla rete), i dati sono incerti. Ma è un fatto evidente che in Africa ci sono forti differenze e squilibri. Il sociologo Giancarlo Livraghi ha sintetizzato il numero di host ogni 1000 abitanti, e dal punto di vista geografico nei paesi del Maghreb la Libia ha 1/2 host ogni mille abitanti, mentre l’Egitto dai 2 (due) ai 5 (cinque) host ogni mille abitanti. Basterebbe questo a ridimensionare la portata dei social network nelle rivolte di piazza Tahrir. Sì, d’accordo. Per la prima volta si è appreso prima dai tweet, e poi dalle tv arabe, quali fossero le proteste e i cortei in piazza convocati per marciare contro l’autocrate di turno. Da chi sono arrivati, è l’interrogativo su cui bisogna soffermarsi.

 Una rivoluzione “percepita”.
Come spesso accade, quella dei social nework nel Nord Africa è stata una rivoluzione “percepita” e vista da Occidente, con gli occhi degli occidentali. Il che significa che i più ad utilizzare Twitter e Facebook, e a riversare quindi sul web un flusso continuo e spesso puntuale di informazioni (ma anche video e link ipertestuali), non sono stati tanto gli under 35 tunisini, poveri e spesso analfabeti. Bensì giovani stranieri, molto spesso giornalisti o operatori umanitari, delle ong, etc: sono loro, assieme ai gruppi di studenti e ai comitati di rivolta che, specie in Egitto,  hanno aggregato le singole proteste, ad aver “armato” i propri profili di cinguettii e post carichi di rabbia e di speranza. Per quanto, è probabile che nello stesso Egitto buona parte delle persone scese in piazza non ha un profilo su Facebook o Twitter. Per chi ha seguito constantemente i media durante questi mesi, sa che, nei paesi del Maghreb una volta formato un gruppo ed eletto un leader, il tutto grazie a internet, la maggior parte dei sostenitori è stato mobilitato grazie a fonti diverse da quelle del web.

 Il ruolo centrale della tv.
Inoltre, vedere tramite la tv, molto più diffusa dei pc, che in altri paesi le rivolte hanno avuto successo è una buona motivazione per scendere in piazza e liberarsi dai propri despoti: un ruolo fondamentale è stato svolto quindi anche dai canali in lingua araba. Di conseguenza è lecito vedere i social network più come “trampolini” delle rivolte nordafricane, che vero e proprio motore o, addirittura, obiettivo dei rivoltosi (come pretesto per una maggiore la libertà di espressione). Se c’è dunque un media che l’ha fatta da padrone, e che ha riunito sciami di egiziani nei bar e nei locali notturni a seguire l’evolversi degli eventi, è stata la tv. Le news in arabo che hanno fatto da vero e proprio megafono della “primavera araba”. Ecco perché è bene tenersi lontani dalle tesi di chi sostiene che i regimi autoritari del Maghreb siano stati persino abbattuti dal web e dai nuovi media. O persino che da lì possa partire una nuova “ondata” di democratizzazione, per citare un celebre saggio di Samuel Huntington, guidata e concepita da studenti o leader politici esclusivamente under 35. Le rivoluzioni, purtroppo, nel secolo della guerra asimettrica e della banda larga, sembra si facciano ancora con le armi e gli eserciti. Non a caso, se nell’Europa mèta di speranza una rivoluzione digitale potrebbero al massimo farla dei ragazzi in pigiama, nel Nord Africa si vedevano solo migliaia di giovani da troppi anni costretti a vivere alla giornata.

 Mappa del Guardian, con i principali profili twitter in Nord Africa

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di Antonio Picasso

È una concessione parziale quella del presidente Bashar el-Assad alle opposizioni. Da oltre 24 ore, si parla dell’avvenuta o meno abrogazione dello stato di emergenza. Molti osservatori sostengono che la legge marziale sarebbe, di fatto, ancora in vigore e che il rais starebbe cercando di formulare un norma alternativa. «Non esiste nessuna legge per abolire lo stato d’emergenza», diceva però ieri Haytham el-Maleh, avvocato e fondatore dello Human Rights Association in Syria (Hras). «Per abrogare questo decreto presidenziale basta una decisione dello stesso presidente».
Lo stato di emergenza è vecchio di 48 anni. Nel 1963, con la sua entrata in vigore, il partito Baath assunse il controllo del Paese. Sette anni dopo, Hafez el-Assad, la volpe di Damasco e padre dell’attuale presidente, si proclamò leader indiscusso del regime. Attraverso questa legge ha creduto di proteggersi da Israele e dalle sue eventuali operazioni di sostegno in favore della dissidenza. Visto inoltre che il potere è nelle mani della minoranza religiosa degli alawiti, Damasco ha ritenuto opportuno tenere sotto pressione la maggioranza sunnita. Lo stato di emergenza prevede che le forze di sicurezza intervengano in tempi record per limitare le libertà individuali e di riunione, oltre che limitino le attività di lavoro, comunicazione e circolazione in tutta la Siria.
Dopo più di tre settimane di manifestazioni e con oltre 200 morti, Bashar el-Assad si starebbe rendendo conto che la linea di intransigenza adottata all’inizio della crisi è insostenibile. D’altra parte, come fare per abrogare lo stato di emergenza e, al tempo stesso, sopravvivere alla rivolta?
In sede tecnica, Assad e la sua coorte starebbero lavorando su tre progetti di legge. Il primo dovrebbe garantire la libertà di manifestazioni, «in termini pacifici e com’è già riconosciuto dalla costituzione del 1973», dice l’agenzia di Stato Sana. C’è da chiedersi come mai, se i cortei sarebbero costituzionalmente garantiti da quasi quarant’anni, solo adesso il governo voglia agevolarli. La seconda bozza prevedrebbe l’abolizione della Corte suprema per la sicurezza dello Stato. Quel tribunale speciale che finora ha fornito una legittimità ai massacri perpetrati dagli uomini delle forze speciali. Terzo e ultimo step consisterebbe nell’abrogazione dello stato di emergenza in sé. Il fatto che questo resti l’ultimo passaggio nella filiera delle opzioni da una parte conferma l’“indecisionismo” di cui è preda il governo, dall’altro permette alle opposizioni di dubitare della buona volontà di Bashar el-Assad. Del resto, su quest’ultimo è stato detto di tutto. Alcuni pensano che non sia lui a muovere le fila del regime e che si limiti a essere una sorta di marionetta nelle mani del vecchio establishment paterno. Altri lo difendono sostenendo che la Siria, come tutto il Medioriente, ha i suoi tempi di reazione e che non bastano dieci anni – tanto è il periodo di presidenza di Bashar – per introdurre un sistema democratico. Riflessioni a cui è facile obiettare. Possibile che Assad, come presidente, non disponga di una sua autonomia decisionale? Al di là delle tendenze riformiste, da lui nutrite, sempre promesse, eppure mai messe in opera, non si può non riconoscere al rais la propria quota di responsabilità per quanto riguarda i 200 morti di queste settimane. Peraltro, il fratello Maher el-Assad, comandante della guardia presidenziale, è ben visibile in un filmato mentre assiste imperturbabile alla conta dei morti a Dara’a. Sarebbe ingenuo credere che i due non si parlino e quindi non stabiliscano una linea comune per la repressione.
Sul fronte della propaganda, il rais ha detto di essere vittima di un complotto esterno. Se all’inizio di aprile il regista di questa eventuale manovra appariva il solito acerrimo nemico israeliano, adesso l’indice accusatorio sembra essere orientato contro i salafiti. Il Baath insiste a negare che la rivolta del mondo arabo nasca da una frustrazione collettiva e spontanea, ispirata dai nuovi mezzi di comunicazione e condotta dalle nuove generazioni. La Siria nega che la sua rivolta possa essere associata a quella egiziana o tunisina. Tuttavia, dopo che da Israele è giunto il messaggio per cui meglio gli Assad piuttosto che un regime islamista, Damasco si è trovata costretta ad accusare altri avversari. E qui siamo all’estremizzazione del paradosso. La Siria sembra implicitamente vicina a Israele e combatte quelle rivolte che l’Iran, invece, sta salutando come un risveglio islamico ispirato dalla rivoluzione khomeinista del 1979. I salafiti – ai quali è attribuito l’assassinio di Vittorio Arrigoni a Gaza – stanno assumendo il ruolo di capro espiatorio. Nel suo discorso del 30 marzo, Assad aveva messo in guardia contro la “fitna”, la discordia tra le diverse fazioni etniche e religiose. Damasco teme di cadere nel baratro della guerra civile. Il regime, tuttavia, chiamando in causa la fronda salafita, persiste nella sua strada del divide et impera. In qualità di espressione, sebbene parziale, degli alawiti, cerca di conservare l’appoggio dei cristiani, minoranza ricca ma polverizzata in troppe chiese. Ma soprattutto spacca in più parti il mondo sunnita, cercando di scremare i moderati dal fondamentalismo. A quest’ultimo, infine, verrebbe associato il sostegno esterno dell’ex vice presidente, Abdel Halim Khaddam e del generale Hikmat Shehabi, già capo di stato maggiore. Entrambi i personaggi, dopo aver seduto alla destra del rais, sono caduti in disgrazia e ora, dall’esilio, si ingegnano per mettere i bastoni fra le ruote del regime. Senza poi contare il supporto economico degli Usa, come sostiene Wikileaks. Se fossimo di fronte a un paziente di psichiatria, potremmo parlare di soggetto schizo-paranoide. Del tipo: “non sono io, come dittatura, a fare del male, sono gli altri che mi odiano”. In questo modo, gli Assad dimenticano ancora una volta che è la piazza siriana la vera responsabile della rivolta e che se qualche agente esterno stia cercando di cavalcarla si tratta solo di una strumentalizzazione.
Per dovere di cronaca, però, bisogna ricordare che, forse, qualche segnale di apertura dai palazzi siriani si può intravedere. Sempre ieri, in antitesi con i tentennamenti relativi all’abrogazione dello stato di emergenza, è stato arrestato un ufficiale responsabile delle violenze di Banjas. Si tratta di Amjad Abbas. Nel frattempo, il rais ha riconosciuto la cittadinanza siriana a 120mila curdi, apolidi fin dai tempi dell’ultimo censimento, celebrato nel 1962. Si tratta di due gesti con cui il regime vorrebbe tenere a bada la popolazione. Ciononostante, il contemporaneo arresto del dissidente Mahmoud Issa lascia pensare  che Damasco non sia effettivamente intenzionata a cambiare passo. Issa è stato fermato perché aveva formulato illazioni in merito all’omicidio del generale Abdo Khodr al-Tellawi, massacrato da mano ignota due giorni fa, insieme ai suoi due figlio e a un nipote. Le autorità parlano di un’esecuzione perpetrata da «un gruppo di bande armate». Ennesima reticenza nelle comunicazioni da parte del governo.

Pubblicato su liberal del 21 aprile 2011

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