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Posts Tagged ‘Mubarak’

Aveva 88 anni ed era malato da tempo. Il papa della Chiesa copta ortodossa, Shenouda III, è morto ieri ad Alessandria d’Egitto. Per i cristiani del Cairo e dei villaggi lungo il Nilo si tratta di un dolore ben più forte della scomparsa di un pontefice per i cattolici. Perché Shenouda era un santo vivente, oltre che un leader politico di fine spessore. In gioventù aveva indossato l’uniforme dell’esercito, combattendo perfino contro gli israeliani nel 1967. Poi aveva scelto la vita dell’isolamento e della preghiera, in uno dei monasteri che costellano il deserto egiziano. Scrigni, questi, di una spiritualità primordiale. Gli eremi copti si ritiene che siano stati costruiti esattamente lungo le tappe della Sacra Famiglia durante la sua fuga in Egitto, per scappare da Erode. E questo rende i fedeli locali carichi di un orgoglio esclusivista. «Noi abbiamo costruito l’Egitto moderno», li si sente commentare. Dal monaco eremita, all’immigrato delle pizzerie italiane, fino ai ricchi uomini d’affari del Cairo e di Alessandria. Per i copti essere copti è un onore. Nessuno tra loro oserebbe disobbedire a una messa, una preghiera, o peggio ancora a non ascoltare la voce che la sua chiesa propaga ogni giorno. Shenouda III era papa della Chiesa autocefala egiziana (copto, dal greco Aigyptios, Egitto). Erede pastorale di San Marco Evangelista, il quale portò il Cristianesimo in Nord Africa e lì fu martirizzato. Duemila anni di storia. Una tradizione ben più radicata di quella islamica. Checché se ne dica del ferreo legame tra Egitto e Corano. E poi un cammino carsico fatto di convivenza e persecuzioni. Oggi siamo alle persecuzioni. Papa Shenouda era amico di Mubarak, o meglio sapeva come trattare con il vecchio faraone. Fu del resto quest’ultimo a revocargli l’esilio al quale lo aveva condannato Sadat. Spesso le minoranze si adeguano al potere costituito, onde evitare problemi. Era così anche in Iraq per i caldei, ai tempi di Saddam. Lo stesso è per i cristiani in Siria. Allineamento con il regime e rifornimento a questo delle adeguate risorse, affinché non perseguiti i fedeli stessi e assuma una linea di parziale modernizzazione. È stato grazie a questo pontefice appena scomparso, e a Cirillo VI prima di lui, che il regime di Mubarak ha sfoggiato una classe dirigente di professionalità internazionale. Boutros Boutros-Ghali, il segretario generale dell’Onu negli anni novanta, è appunto un copto. Morto un papa se ne fa un altro. Proverbio trasteverino che si adatta al cristianesimo nilota. Sì, ma chi? Il vescovo Amba Mousa? A suo tempo è stato lui stesso a schernire qualsiasi previsione come successore, nascondendosi dietro il protocollo che prevede l’estrazione a sorte tra i monaci. Una scelta di Dio, quindi imprevedibile, che si posa sul capo del suo rappresentante in quel Paese all’ombra delle piramidi. Tutto molto suggestivo, ma forse un po’ poco pratico. Il prossimo papa copto dovrà prender per mano una comunità cristiana che, da anni, teme di essere schiacciata dall’Islam più intransigente. Per i copti i Fratelli musulmani sono il nemico da contrastare. Da qui il rifiuto nel separare le istanze moderate da quelle estremiste. Quella lasciata da Shenouda è una chiesa che denuncia persecuzioni. Tuttavia, non disdegna di imbracciare le armi. È necessario un papa politico, quindi. In grado di far sentire la propria voce nel difficile processo di normalizzazione che l’Egitto ha (forse) intrapreso. E magari di confutare i timori, nutriti dai cristiani stessi, per cui il Paese sia a un passo dallo scontro confessionale.

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Il governo provvisorio tunisino ha dato l’ok per l’estradizione di Baghdadi al-Mahmudi, ex premier libico e fedelissimo di Gheddafi. L’esponente del regime era stato arrestato già in settembre dalle stesse autorità tunisine e da loro condannato per essere entrato nel Paese senza un regolare visto sul passaporto. Trattato come un qualsiasi profugo, gli era stata inflitta una pena di sei mesi di reclusione. Trasferito in Libia, Mahmudi sarà chiamato a rispondere di ben altri crimini. Non come diretto responsabile delle persecuzioni da parte di Gheddafi, bensì in qualità di ex primo ministro a conoscenza delle molte ombre che sovrastano la storia della Libia.
La figura di Mahmudi infatti non viene ricordata per episodi violenti. Egli era a capo di un esecutivo fantoccio ormai dal 2006. Incarico più da yesman burocrate che da militare dal grilletto facile. Prima di guidare il governo, si era fatto strada nell’establishment nazionale come mero tecnocrate. L’inizio della sua attività politica coincise con gli step diplomatici per lo sdoganamento della Libia dal regime di sanzioni che le era stato imposto dall’Onu, dietro pressione degli Usa. In questi ultimi cinque anni, Mahmudi è stato testimone dell’apertura del Lybian Investment Authority, il fondo sovrano che ha permesso alla famiglia Gheddafi di sviluppare interessi tentacolari nella finanza e nell’industria di molti Paesi europei. In qualità di Primo ministro, Mahmudi ha presieduto anche l’High Council for Oil & Gas, una sorta di ministero degli idrocarburi, atto ad attestare le concessioni petrolifere nazionali elargite alle major straniere. Insomma, si pensa che l’indagato abbia pilotato la cabina di regia della corruzione che è stata propria del regime. È per questo che il governo di transizione libico lo attende. Non per i precedenti di sangue.
Va avanti così la Norimberga araba. E il fatto che questa stia penetrando anche in Libia lascia intendere quanto sia la fretta nutrita dai nuovi governanti nel voler liquidare, con sentenze magari anche sbrigative, i loro predecessori. Non è da escludere che questa spigliatezza nel chiudere le partite giuridiche sia legata all’interesse di tutti – anche dell’Occidente – di evitare che i superstiti dei passati regimi comincino a rendere noti fatti e misfatti in cui potrebbero essere coinvolti. Mahmudi è esemplificativo. Egli è la memoria storica della corruzione e dei compromessi siglati tra Gheddafi e i leader di tutto il mondo. Con i suoi oltre trent’anni di servizio nella pubblica amministrazione libica è facile che sia a conoscenza delle informazioni più imbarazzanti che possono mettere in cattiva luce non solo i governi stranieri, ma anche i futuri governanti di Tripoli. In un parallelismo cinematografico con gli Intoccabili di Brian De Palma, Mahmudi potrebbe equivalere al contabile di Al Capone, il quale – una volta catturato – non può che spifferare tutto del suo boss. La differenza sta nel fatto che l’Alfonse Capone di Tripoli è già stato fatto fuori.
Tuttavia, quel che sta accadendo in Egitto e Tunisia mette in luce come la rispettive classi politiche nazionali preferiscano concentrarsi sulla contingenza delle rivoluzioni. Il discorso si può fare anche per le due magistrature. Sono gli episodi di repressione a guidare effettivamente i capi di accusa dei processi in corso al Cairo e a Tunisi. Imputazioni, queste, che meritano sicuramente un giudizio. Tuttavia, restano incomplete. Perché sono la corruzione e il malgoverno che si sono protratti nei decenni ad aver provocato la rivoluzione.
Per quanto riguarda l’Egitto, il processo a Hosni Mubarak e ad altri big della sua presidenza è stato rinviato al 28 dicembre. La decisione della corte del Cairo ha suscitato aspre critiche da parte delle famiglie delle vittime degli scontri di febbraio. Al banco degli imputati, oltre all’ex faraone, appaiono i due figli, Gamal e Alal, l’ex ministro dell’interno, Habib al-Adli, e sei alti papaveri. Tutti sì accusati di essersi arricchiti con capitali dello Stato, ma soprattutto ritenuti responsabili del sangue versato in piazza Tahrir.
Lo stesso dicasi in Tunisia. Qui il processo di punta mostra la poltrona dell’accusato mestamente vuota. L’ex presidente Ben Ali, fiutato il pericolo è riuscito a mettere in salvo se stesso, la sua famiglia, ma soprattutto quel patrimonio personale di 17 miliardi di dollari che fa da caparra per il suo soggiorno forzato in Arabia Saudita. Così, mentre il Mario Chiesa della rivoluzione araba resta contumace, i suoi fedelissimi pagano pegno. Rafik Belhadj Kacem e Ali Seriati, rispettivamente ex ministro dell’interno e comandante in capo della guardia presidenziale, stanno rispondendo delle accuse di omicidi di massa perpetrati a Sfax e Tozeur all’inizio dell’anno.
In entrambi i Paesi, per quanto la giustizia stia imboccando una strada – almeno una strada c’è! – si è concentrati sulle cronache degli ultimi dieci mesi. Questo ha permesso la fuga di molti rappresentanti del sottobosco governativo. Come pure di alcuni nomi illustri. Ben Ali è il primo di questa lista. Seguito dall’ex ministro delle finanze egiziano, Youssef Boutros Ghali, scappato a Londra. In questo senso, mentre non si può dire che ci sia un Paese francamente  disponibile ad accogliere i fuggiaschi – com’era successo invece per l’America Latina alla fine della seconda guerra mondiale, trasformata in succursale segreta dei nazisti – si può rilevare una mancanza di attenzione da parte delle autorità fresche di nomina. Il che ha permesso all’ex presidente tunisino di scappare con il malloppo, al responsabile delle finanze di Mubarak di rifugiarsi a Londra e, fino all’altro ieri, all’ex premier libico di passare per immigrato clandestino agli occhi della polizia di Tunisi.
Tuttavia, lo scenario di vendetta della Libia è ben noto. Il linciaggio al quale è stato sottoposto Gheddafi ha fatto il giro del mondo. Quelle immagini restano un ammonimento per tutti i leader arabi ancora al potere. Nel caso qualcuno non si fosse lasciato suggestionare da Mubarak piagnucolante dietro le sbarre, la piazzale Loreto libica potrebbe aver scombussolato ulteriormente gli animi. Il primo pensiero, nella fattispecie, va ad Assad, il quale sta massacrando i suoi oppositori con la stessa crudeltà con cui i ribelli di Bengasi hanno fatto scempio del corpo del loro ex colonnello. Non si può escludere che, in un futuro prossimo, anche il presidente siriano possa fare la stessa fine. Nel frattempo, Saif al-Gheddafi, superstite indomito della sua progenie guerriera e beduina, pare che si sia rifugiato in Niger, oppure in Mali, grazie all’aiuto delle tribù tuareg. Non è da escludere che un giorno lo si veda a fianco di Ben Ali, in una gabbia dorata che si affaccia sul Mar Rosso. Ammesso che i sauditi lo accolgano. Gheddafi non godeva di così grande affetto presso i Custodi dei luoghi santi dell’Islam. È certo che non nascerà della simpatia per il figlio. Plausibile, a questo punto, che Saif si ponga alla guida di qualche banda raccogliticcia di salafiti, qaedisti e ribelli, votati alla guerriglia e quindi ben di intralcio nel processo di ricostruzione politica del Nord Africa. O meglio ancora che accetti l’invito dei governi venezuelano o boliviano per continuare a fare il businessman in Sudamerica. In questo caso sì come gli ex nazisti.
La mossa di Tunisi, comunque, sembra essere un gesto di buona volontà. Fermo restando che la vittoria elettorale è degli islamisti, il Paese vuole rifarsi l’immagine di fronte ai finanziatori occidentali. Consegnando alla Libia Baghdadi al-Mahmudi, i tunisini si dimostrano ben disponibili a colpire l’ordine costituito e ora decaduto. Da notare, d’altro canto, che a essere puniti sono gli ex di un regime straniero. Quelli nazionali, salvo le grosse eccezioni sopra menzionate, si sono trasformati abilmente in riformisti e promotori del cammino democratico. Il tutto pone il futuro governo in una posizione di sorvegliato speciale. E non basterà la condanna capitale che, si prevede verrà comminata a Ben Ali – anch’essa in absentia – per accordare fiducia al Paese.

 

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Ce l’ho fatta. È la seconda volta che leggo Cronache mediorientali di Robert Fisk. 1096 pagine. Tolti indice analitico, cronologia, note e altro. C’ho messo due mesi, ma ci sono riuscito. Ne ho sentito il bisogno da quando sono cominciati gli scontri di piazza Tahrir, a febbraio. La fine di Mubarak è stata un segnale per far capire che, davvero, il mondo arabo sta facendo sul serio. E forse non solo quello arabo. Il quadrante Af-Pak non è rimasto silente in questi mesi. Tuttavia, l’onda che arriva subito dopo le rivoluzioni (una cosa seria appunto) è sempre un problema. E Fisk ce lo dimostra. Un mattone di libro per ammonire che la storia, specie in Medioriente, si ripete. Eccome se si ripete!La Siriadi oggi è l’Iran dello scià, quando il trono del pavone era a un passo dal crollo. Forse è lo stesso per l’Egitto, dove la giunta del Cairo fa credere che, caduto il rais, sia tornato il sereno. Mentre l’Afghanistan, suo malgrado, non è mai cambiato.
Una nuova generazione di arabi è scesa in piazza. Libertà, democrazia, trasparenza. Chi è che osa mettersi di traverso a questi valori per cui Europa e Stati Uniti si sono battuti nei secoli? Eppure le cose non stanno andando come dovrebbero. Perché? Perché non si cambia passo da un giorno all’altro. Siamo solo all’inizio di un lungo cammino. Sta all’Occidente – non solo alle blogosfere arabe – capire quale sia la rotta giusta, per evitare il disastro, oppure per tornare a parlare con Egitto, Tunisia e, chissà, magari anche con Libia e Siria. Stabili sì, come desiderato da molti, ma ringiovanite, com’è giusto che siano.
Certo, da Fisk non è facile recuperare ottimismo. Anzi, le sue interpretazioni spesso fanno innervosire. Ma un buon libro, perché abbia valore, deve fare inXXzzare. Cronache mediorientali è utile – non alla prima e nemmeno alla seconda, forse alla terza lettura – perché ci dice proprio quello che non si dovrà fare per evitare il peggio. Sbagliando si impara. Giusto?

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Il presidente yemenita, Ali Abdullah Saleh, sta meglio. Almeno così dicono i comunicati medici ufficiali che arrivano dall’Arabia saudita. La scorsa settimana, il suo ferimento e la conseguente fuga a Riyadh avevano fatto credere che la crisi yemenita potesse arrivare a un dunque. Si sarebbe trattato di una conclusione inaspettatamente anticipata. Finora le rivolte nel lontano Paese della Penisola arabica hanno suscitato una preoccupazione diffusa. La posizione strategica dello Yemen, dov’è presente al-Qaeda, come pure la storia – caratterizzata da continue lotte intestine – portano gli osservatori a ritenere che lo stesso sia destinato all’ennesima scissione. Alcuni ipotizzano, con una certa fondatezza, un rigurgito di guerra civile. Per questo, l’uscita di scena di Saleh può apparire positiva. Eliminato il capo, si aprirebbe la strada per la pacificazione. Tuttavia, le notizie odierne, ammessa la loro cieca attendibilità, non specificano se il presidente sia anche in condizioni di tornare in patria. Peraltro, lo Yemen non è l’Egitto, dove il post-Mubarak viene gestito alla meno peggio dallo stesso establishment contro cui si è scatenata la folla a febbraio. Sana’a è stretta nella morsa delle rivalità tribali, della violenza diffusa e soprattutto dell’arretratezza economica. Tre metastasi che portano a escludere un processo di normalizzazione anche nel caso che la presidenza Saleh venisse archiviata così alla svelta. Tanto più che le migliaia di manifestanti si guardano bene dallo smantellare i propri bivacchi intorno alle fiabesche mura di Sana’a. Segno, questo, che le tribù nemiche del presidente non si limitano a contestare la sua leadership personale, bensì mirano al sovvertimento sistematico dell’intero potere. In questo, le analogie con Tunisi e Il Cairo sono evidenti.
Ciò non impedisce di ipotizzare una linea di successione. La pletora presidenziale è composta da un reticolo tribale che si è spartito il potere negli ultimi trentadue anni. In questo senso, Saleh è stato capace di mantenere il controllo a Sana’a durante la guerra civile e soprattutto di estenderlo a conclusione di quest’ultima (1994) e con la successiva unificazione di Yemen del Nord e del Sud. Nell’eventualità che il Capo dello Stato non sia in grado di esercitare le proprie funzioni, le redini del Paese potrebbero passare nelle mani del figlio, Ahmed, in collaborazione con due nipoti, Yahya e Tariq. I loro nomi erano già stati segnalati in tempi non sospetti. Ahmed è il delfino nominato. Tanto più che i tre si spartiscono il comando della Guardia repubblicana, della polizia e della scorta personale del Presidente. In pratica, nelle loro mani è raccolta la forza d’elite (se così si può chiamare) dello Yemen. Il clan Saleh, poi, si dipana in una fitta rete di contatti e parentele con le tribù locali. Le stesse che hanno dato filo da torcere alla minoranza zaiditha (sciita settimana) in questi anni. Le stesse, però, rappresentano una compagine polverizzata di eserciti personali, alla stregua di Forze armate private di stampo medievale. È plausibile fidarsi ciecamente di queste milizie?
Dall’altra parte della barricata, due sono i soggetti che meritano attenzione. Il clan al-Ahmar, punta di diamante della federazione tribale degli Hashid, e la coalizione del Joint Meeting Party (Jmp). Della prima si  può parlare come di una lobby avversaria del presidente, attiva in termini tentacolari nella vita politica yemenita, quanto nelle poche realtà economiche locali. L’accortezza degli al-Ahmar è stata quella di investire nel settore della telefonia, tramite il gestore Sabaphone. In questo modo, si sono assicurati un comparto produttivo che, perfino in Yemen – Paese, va ricordato, tra i più poveri al mondo – sfoggia una discreta capacità di entrate. Anzi, il fatto che l’operatore si sia aggiudicato concessioni in Bahrein e perfino in Iran dovrebbe far riflettere. Himyar al-Ahmar è inoltre vice presidente dell’Assemblea parlamentare di Sana’a. L’incarico non ha alcun peso a livello democratico, ma è fondamentale nella gestione dei rapporti con le altre tribù, oltre che nella distribuzione delle concessioni statali (appalti pubblici, infrastrutture e quindi telecomunicazioni). Nelle ultime settimane inoltre, a dispetto delle posizioni istituzionali ricoperte, gli al-Ahmar hanno dato filo da torcere alle truppe fedeli al presidente. Si pensa che sia stato proprio un loro commando ad aprire il fuoco e ferire Saleh. Ciò a conferma che le armi in Yemen non sono né un monopolio di Stato, né all’interno di quest’ultimo vengono utilizzate in una sola direzione. Il Jmp è invece un patchwork di socialisti, islamisti e, ovviamente, tribù di opposizione. Politicamente, il soggetto non nasce con la rivolta. La sua coalizione, tuttavia, è talmente male organizzata che ci si chiede come sia riuscita a sopravvivere, in competizione con gruppi di interesse meglio strutturati. Il suo punto debole, congiunturale alla crisi odierna, è l’aver accettato la condizione dettata dal Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) per cui il ritiro di Saleh avrebbe dovuto seguire un iter morbido. Cosa che, invece, la piazza ha rigettato immediatamente. Il Jmp è stato costretto ad accettare, con la speranza di ricavarne il riconoscimento quale autorità provvisoria da parte di Riyadh. Nel momento in cui non è riuscita l’operazione, l’alleanza è stata messa nell’ombra.
Per dovere di cronaca, bisogna segnalare gli ennesimi tentativi del Gcc di fare da cuscinetto tra l’intransigenza delle parti. L’organizzazione sembra che voglia approfittare dell’assenza di Saleh per risolvere il capitolo yemenita che, nella globalità della rivoluzione dei gelsomini, viene erroneamente giudicato come marginale. Se lo Yemen salta, verrebbero compromessi i rapporti commerciali tra est e ovest del mondo. Tutti, dagli Usa all’Iran, da Londra a New Delhi, hanno interesse che a Sana’a torni il sereno. L’insediarsi di un regime democratico è lungi dall’essere preso in considerazione. L’arretratezza del Paese non consente simili previsioni.
Volendo chiudere in maniera esaustiva questa rassegna, non resta che nominare il generale Ali Mohsen, comandante della prima divisione meccanizzata, e il vice presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. Dell’alto graduato se ne è scritto in quanto ha fatto da apripista a una lunga serie di defezioni in seno alle Forze armate. Mohsen è sotto controllo da tempo. Secondo Wikileakes, gli Usa ne osservano i calcoli politici e le manovre interpersonali dal 2005. «È l’uomo in uniforme più influente del Paese», si legge in un dispaccio dell’ambasciata statunitense a Sana’a. Hadi ha dalla sua l’attuale presidenza in pectore. L’assenza di Saleh, infatti, lo ha elevato a Capo dello Stato. Adesso, secondo la costituzione yemenita, il vice presidente dovrebbe aspettare 60 giorni prima di poter entrare in possesso formale del mandato. Una mossa infida quella di Hadi. A fianco di Saleh dai tempi della guerra civile, fino a qualche settimana fa, si è presentato come sostenitore della presidenza. È stato lui a trattare con il Gcc, quasi a simboleggiare l’indissolubile legame personale con il suo superiore. Adesso che Saleh è sotto controllo in un letto di ospedale, per giunta all’estero, Hadi tenta il colpo di mano.
Le possibilità di vittoria sono equanimi per tutti. Motivo: le proiezioni uniformemente deboli che si possono fare per il Paese. Non serve ricordare che il successore di Saleh dovrà, prima di tutto conquistare l’appoggio dei capi tribù e dei capi villaggio. In un secondo tempo, sarà chiamato dal sovrano saudita. Riyadh non vuole certo perdere il suo angolo di penisola e svenderlo a guerrigliero. C’è, infine, da considerare una schiera di elementi incontrollabili che stupiscono per pericolosità e quantità, visto che sono condensati in un unico e piccolo Paese. Al-Qaeda, immigrazione di massa dal Corno d’Africa, mercanti d’armi e di droga, pirateria, zaidithi. L’elenco è in ordine alfabetico. Non è possibile fare una stima di chi sia più temibile tra tutti. Specie se ci si rende conto che si tratta di una cordata del male, i cui anelli sono indissolubilmente connessi.

Pubblicato su liberal del 21 giugno 2011

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di Antonio Picasso

La partecipazione alla No fly zone (Nfz), da parte della Lega araba, come a qualsiasi altra iniziativa Onu, rappresenta per i Paesi del golfo l’ultima spiaggia per non essere esclusi dalla crisi libica. Tre settimane fa, il quotidiano saudita Arab news ventilava la possibilità che la stabilità nel Paese nordafricano potesse essere riportata attraverso un intervento militare, via terra, per mano esclusivamente araba. È scontato pensare che, caduto Hosni Mubarak, la possibile sconfitta di Muhammar Gheddafi apra la strada per l’Arabia saudita verso la leadership dell’organizzazione. Uno show di forza in Libia, quindi, sarebbe un’opportunità per tutta la Lega di fermare la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” e, al tempo stesso, di consolidarsi come soggetto influente e di identità prettamente saudita sullo scacchiere internazionale. Arab news sottolineava anche come sarebbe molto più facile per un contingente egiziano e tunisino – questo era il progetto – di inserirsi nel contesto di tensione fra Tripoli e Bengasi. Un Gi americano in Nord Africa sarebbe un invasore. Un soldato arabo, al contrario, verrebbe accolto come un fratello di una nazione amica che porta la pace. A dispetto di queste motivazioni, la comunità internazionale non ha mai tenuto conto della proposta di una testata giornalistica molto vicina a re Abdullah. Di conseguenza, l’adesione alla Nfz rappresenta un placebo affinché i governi arabi possano partecipare come soggetti agenti alla risoluzione della crisi in Libia.
In tal senso, la Lega si è prefissata tre obiettivi: cacciare Gheddafi, nemico dichiarato di molti membri dell’organizzazione, dimostrare la propria capacità di risolvere problemi relativi alla sua regione di competenza, concludere il proprio processo evolutivo nel passaggio di consegne della sua leadership, dall’Egitto ai Paesi del Golfo persico. Si tratta di una linea politica dettata dalla monarchia saudita, la quale letteralmente scalpita da anni per sostituirsi al Cairo. Ora che il vecchio faraone è stato mandato a riposo, re Abdullah dispone di tutti gli spazi di manovra per realizzare questo ambizioso progetto. Non è un caso che l’offerta di partecipazione concreta della Nfz sia giunta dal Qatar e dagli Emirati arabi, entrambi gregari di Riyadh. Il primo, peraltro, ha già dimostrato negli anni passati una spregiudicatezza diplomatica di successo. È stato a Doha, che l’emiro qatariota ha convocato tutti i rappresentanti del mosaico politico e religioso libanese, nel 2008, per risolvere l’allora crisi istituzionale. Ed è sempre lì che si è cercato, senza alcun risultato positivo, di ricucire lo strappo interno al mondo palestinese. Da notare come, nel caso della Libia, l’Arabia saudita abbia rinnovato la propria posizione di appoggio esclusivamente politico all’iniziativa. Non saranno i suoi aerei a sorvolare i cieli del Nord Africa. Così come le sue Forze armate non sono mai intervenute in conflitti lontani dall’area di diretto interesse di Riyadh – eccezion fatta per la prima guerra del Golfo, nel 1991 – anche nel caso libico, re Abdullah si è limitato a dare il suo placet. Ma si è fermato a questo.
La scelta di restare ai margini dell’impegno militare, stavolta, è motivata dalla crisi del Bahrein. Lì sì che i sauditi, sentendo il pericolo alle porte di casa – sia in termini di rivoluzione, sia come potenziale rivalsa della propria minoranza sciita – hanno inviato un migliaio di uomini a sostegno del governo di Manama. L’operazione “Scudo penisola” è prioritaria per Riyadh.
I calcoli politici di re Abdullah, tuttavia, mostrano un punto debole. Le sue ambizioni egemoniche nella Lega Araba avrebbero ragion d’essere se l’Egitto fosse finito del tutto. Ma questa non è una certezza. In primis, perché con l’organizzazione ancora in mano all’egiziano Amr Moussa il passaggio identitario non può dirsi completato. Se poi quest’ultimo vincesse le elezioni presidenziali al Cairo, i progetti del sovrano saudita rischierebbero di essere sensibilmente ridimensionati. Gli Usa, inoltre, così come non sono in grado di rinunciare al petrolio del Golfo, altrettanto non possono rompere l’alleanza con l’Egitto. Pertanto, il loro sostegno al regime post-Mubarak, di qualunque colore esso sia, costituirà comunque un ostacolo invalicabile alle aspirazioni di Riyadh. Infine l’Egitto è sul Mediterraneo. Quindi ha molte più chance pratiche per intervenire in Libia. E non solo per via aerea. Proprio ieri, il Wall Street Journal parlava di un piano del Cairo di armare i ribelli libici. Operazione che avrebbe il placet del Pentagono. È vero anche, però, che Robert Fisk sull’Independent citava la stessa operazione aggiungendovi la partnership saudita. L’affare non è chiaro. Tuttavia, al di là della fondatezza di queste due notizie, è evidente che alla Lega araba l’idea di una Nfz risulti incompleta; se davvero si vuole cacciare Gheddafi. Presso i governi locali, si nutre la convinzione che chiudere i cieli libici non sia sufficiente. I combattimenti via terra proseguirebbero comunque. I nemici dei rivoltosi non si limitano a essere le Forze aeree fedeli ancora al colonnello, bensì i mercenari africani al soldo di quest’ultimo.
D’altra parte, la presenza della Lega araba è necessaria agli Usa. Washington si è resa conto che la Nfz peserebbe sulle casse del Pentagono 300 milioni di dollari alla settimana. Il Tesoro federale ha detto no! Soprattutto alla luce della scarsa affidabilità dell’Unione europea. A un mese dall’inizio della crisi libica, Bruxelles non ha ancora trovato la quadra del cerchio fra le posizioni più radicali e chi, invece, insiste sul dialogo. Peraltro la stessa Ue non dispone di una liquidità monetaria immediata da poter investire a tempi di record in nuove manovre belliche. I Paesi del Golfo, invece, sono tutt’altro che vincolati da questi problemi. L’impennata dei prezzi del petrolio, dovuta per fortuita coincidenza proprio alla crisi nordafricana, ha ulteriormente colmato i forzieri dei singoli emiri. Re Abdullah può ben finanziare operazioni militari di vario tipo e, in contemporanea, su differenti scacchieri. In Libia attraverso Emirati e Qatar, in Bahrein e nel frattempo armare i ribelli anti-Gheddafi.
In ultima analisi la Lega Araba e Israele. Si sa che, nei delicati equilibri mediorientali, le due parti non si parlano ufficialmente. Bensì hanno solo contatti sottobanco. Difficile credere che forze militari del Golfo possano sorvolare liberamente i cieli del Nord Africa senza suscitare il disappunto dello Stato maggiore israeliano. Ecco spiegata la presenza, forse, della Giordania: interlocutore fidato del governo Netanyahu. Con Amman in prima linea, Tzahal non può opporsi.

Pubblicato su liberal del 20 marzo 2011

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